sabato 25 ottobre 2008

Brasilia!

Pensate al Brasile. Cosa vi viene in mente? Sù, coraggio, non abbiate paura di essere banali... la bandiera gialla e verde, il carnevale, il pan di zucchero, gran sorrisoni, qualche bel culo su cui far danzare le pupille, certo, bravo Gualtiero, esatto... vivacità, insomma, colori, allegria, samba, pennacchi colorati.
No.
Non qui.
Non a Brasilia.
Brasilia è il centro amministrativo del paese, una città costruita a tavolino (e doveva essere gran scomodo, come tavolino) una sessantina di anni fa dall'architetto Nymeyers, il quale non doveva avere gran dimestichezza con il compasso, solo con riga e squadra. Tutta la città è basata su una forma a croce (i più dicono ad aeroplano, ma è la conformazione orografica del terreno che ha imposto la forma ad aeroplano, in realtà). Al centro di questa croce sta la torre della televisione, un traliccio molto molto alto dotato di ascensore con tanto di ascensorista, un ragazzo cencioso perennemente con la cicca in bocca, il cui mestiere consiste nel pigiare i due bottoni presenti in cabina: uno fa salire l'ascensore alla terrazza panoramica, l'altro lo riporta a terra. Mi son chiesto da quanto lo facesse, quel lavoro, e cosa ne pensasse. Forse niente. O che ambizioni avesse da bambino quel ragazzo.
Comunque una volta saliti in cima alla torre della televisione, cosa che io ho fato entro la prima ora del mio soggiorno in Brasile da sveglio, si può dire di avere un quadro soddisfacente della città.
Che da un lato è grandioso, ma dall'altro è tragico! Io che amo i piccoli anfratti, i vicoletti con i portici e la varietà umana che vive per le strade qui non ho nulla di tutto questo. Chi è stato all'EUR di Roma può avere una vaga idea di cosa dico. L'intera città di Brasilia è simile all'EUR, essendo costituita da palazzoni squadrati, paralleli fra loro, intervallati da grandi distese erbose (che vengono tenute perfettamente irrigate e pulite da squadre di omini in tuta arancione) oppure da strade enormi. Le strade cittadine principali hanno sei corsie. In un senso. Poi in mezzo c'è un prato di almeno cento metri e dall'altra parte ci sono altre sei corsie. Una stradona va verso i palazzi dei ministeri, l'altra torna. Una è intasata al mattino, l'altra al pomeriggio tardi. L'altra arteria di comunicazione, perpendicolare alle prime due, è un'autostrada vera e propria. L'intera città, per favorire la circolazioe, è stata costruita senza attraversamenti a raso e quindi anche senza semafori. Poi, vent'anni fa qualcuno ha detto: "Cazzo! E i pedoni?" In effetti i poveri abitanti di Brasilia dovevano sottoporsi alla roulette russa per attraversare le strade coi bolidi lanciati senza controllo. Allora qualcuno ha messo delle strisce pedonali e alcuni semafori. Uno ogni due chilometri.
Io ho ovviamente scelto il modo più comodo per visitare la città: a piedi. Con il risultato che torno a casa (in albergo) con un mal di gambe atroce e la schiena spezzata. Vedere un palazzo e raggiungerlo a piedi sono due cose ben diverse. La misura con cui è stata costruita questa città è così fuori scala rispetto all'uomo che tutto sembra a portata di mano, ma non lo è, ci si confonde e si perde il senso della misura.
Altra cosa che mi ha colpito è la mancanza di centri di aggregazione. Non c'è un ristorante, un bar, una zona dove i ragazzi si possano trovare, tutto è così enorme da essere assolutamente dispersivo. Tutto è ufficiale, di rappresentanza. Nella zona dei ministeri i rari passanti hanno un cordino al collo e un badge. Tutti, giuro. Sono persone che lavorano nei vari uffici, d'accordo, ma non c'è varietà umana. Penso a Bangkok, penso alla mia Saigon...
La tariffa del mio albergo include la colazione, ed è una colazione molto varia, anche se non particolarmente buona. La mattina cerco di mangiare il più possibile, mi devasto letteralmente lo stomaco di bacon, salumi, prosciutti e formaggi, panini, patate, tacchino affumicato, caffè, succo d'arancia, tortine, uova strapazzate, all'occhio di bue, frittate, in modo da ritardare il più possibile l'orario di pranzo e mangiare con poco. In effetti pranzo intorno alle quattro di pomeriggio, prima non ho fame. Per mancanza di ristoranti o bancarelle gli unici posti in cui si può mangiare a mezzogiorno a Brasilia sono i centri commerciali. Ogni centro commerciale ha un piano in cui sono concentrati i ristoranti, o meglio, i fast food. Di solito ad un certo punto della giornata entro in uno shopping mall e mangio giapponese o cinese. Il problema per quando sono in giro è l'acqua. Non ci sono bar. No, nemmeno uno. Oggi dopo due chilometri sotto il sole cocente e la macchina fotografica al colo che sembrava sempre più pesante (qui ci sono trenta gradi) ho trovato una bancarella ed ho chiesto all'omino: "Acqua?" E lui mi ha guardato e poi mi ha detto "Salgado"
L'ho presa come un complimento, ho fatto un sorriso ed gesto di modestia, come a dirgli che no, non ero Salgado, ma Andrea, solo che ho capito che non aveva acqua. Solo Salgado, cioè roba salata.
Fanculo lui e Salgado.
La gente è bella, invece. Io che ero un tantino prevenuto sui brasiliani mi devo ricredere, son simpatici e sorridenti. Bruttine le donne, invece, e questo è un po' una delusione. Non me ne vogliano gli estimatori del genere carioca, è solo la mia opinione.
Vedremo come continua, per ora ho fatto una serie di fotografie di architettura di facile effetto, visto che l'intera città sembra fatta apposta per essere fotografata da chi ama le architetture senza gente di mezzo...

DAG

giovedì 23 ottobre 2008

Alto giro altro regalo!

Sarà per la gioia di mister Hill oppure sarà perché è un po' la strada che mi son scelto, ma sono di nuovo in partenza. Questa volta si tratta di un viaggio di puro lavoro, l'itinerario che dovrò seguire non si mescola con nessuna curiosità nata in modo autonomo, ogni tappa sarà sede di un lavoro.
Il taxi che questa mattina (anzi, questa notte, visto che erano le quattro passate da poco) mi ha accompagnato all'aeroporto era bagnato da una fastidiosissima ed inconsistente pioggia, che ha fatto in tempo ad inumidire anche i miei vestiti, ed il guidatore constatava che era la prima delle tante pioggerelline invernali che riducono la visibilità, rendono scivoloso l'asfalto e infreddoliscono fin dentro le ossa.
Controllando nel retrovisore ha visto il mio sorriso ed io non ho saputo trattenermi: "Ecco, tanto io vado in Brasile!"
"'Azzo!" ha detto lui.
E così mi ritrovo a Lisbona, prima tappa del volo e già immerso in un'atmosfera portoghese, con questa lingua assolutamente strana, per me incomprensibile, con facce ed abbigliamenti che sono solo leggermente diversi da quelli che si vedono a Milano.
Mentre nei precedenti spostamenti verso l'Asia l'incremento di occhi a mandorla, capelli corvini e facce imperturbabili mi faceva sentire sempre più vicino alla mia meta e sempre più lontano da casa, qui mi chiedo come mai le persone a cui mi rivolgo non capiscano assolutamente quel che gli dico in italiano.
Non ho mai subito il fascino del Brasile, anzi, pensavo che non ci sarei mai andato, essendo diffidente per vari motivi su molti aspetti relativi a sudamerica e sudamericani, brasiliani in particolar modo per esperienze dirette, ma sono comunque disposto a ricredermi e tornare entusiasta. Un buon viaggiatore deve cercare di restare sempre a mente aperta. L'ostacolo della lingua non mi spaventa (non mi sono fatto grossi problemi con il laotiano, il vietnamita ed il cinese, figuriamoci con un idioma imparentato con il latino) anche se è vero che mi risulta totalmente incomprensibile. Ascoltando il portoghese ho l'impressione di risentire me quando sono completamente ubriaco: tutto sbiascicato e con le parole smangiate, con aggiunta di un po' di "u" a fine parola. Ma forse è perché qui mi pongo il problema di capire: in Lao e in Cina non me lo ponevo nemmeno: linguaggi alieni e basta.
La partenza comunque non è stata proprio liscia come l'olio: imbarcata la valigia con i vestiti e portato al controllo doganale il bagaglio a mano (ovvero l'attrezzatura foto e video) ed il treppiede, sono stato rispedito indietro perché il treppiede non può stare a bordo. Bisogna spedirlo. Chiunque sia capace di dirottare un aereo con un treppiede mi insegni come si fa che son proprio curioso...

DAG

domenica 6 luglio 2008

Diamo i numeri

Ecco il viaggio in cifre, meticolosamente registrate ad ogni movimento, ad ogni cambio di hotel, di paese, ad ogni decollo e atterraggio e ad ogni pullman preso per andare di qua o di là.

DECOLLI 23
ATTERRAGGI 23 (e menomale!)
CITTA' TOCCATE 36
LETTI "DORMITI" 43
ORE DI AUTOBUS 292 (ovvero più di dodici giorni)
VOGLIA DI TORNARE 0
VOGLIA DI RIPARTIRE ∞

Ma non smettete di venire a controllare questo blog, il viaggio può non essere davvero finito...
Aspettate qualche giorno e chissà...

DAG

mercoledì 2 luglio 2008

E' successo tanto tempo fa

E' successo tanto tempo fa che mia madre e anche altri amici mi regalassero i diari su cui prendere gli appunti di questo viaggio, aggiungendovi per iscritto l'augurio di godermi l'esperienza, con la postilla di tornare. Bene, vi assicuro che ho goduto ed assorbito ogni singola goccia, ogni singolo boccone ed ogni singolo minuto di questo viaggio, anche nei momenti più duri.
E' successo tanto tempo fa che, in un momento di difficoltà e di scoramento, ho detto ad Alessia: "Voglio tornare!" E lei mi ha risposto"Ma sei sicuro? Guarda che l'esperienza che stai facendo potrebbe non ripetersi più in tutta la tua vita!"
Ed è stato come uno spillone nel sedere, mi sono svegliato ed ho continuato.
E' successo molto tempo fa, ad appena due giorni dal mio arrivo in Asia, (questa cosa la sanno veramente in pochi) che un bancomat a Bangkok mi ritirasse e distruggesse la tessera del bancomat, lasciandomi con il bancomat del conto di emergenza, molto più povero. Improvvisamente il budget per il mio viaggio era ridotto di un terzo. "Mi faccia sapere dove sarà nei prossimi giorni, Da Gasso, e le faccio inviare un bancomat nuovo!" Mi disse il mio direttore di banca. Ma partivo il giorno successivo per il mio primo ingresso in Vietnam, e non sapevo assolutamente dove sarei andato a finire né per quanti giorni. Ok, mi son detto, vuol dire che è un segno del destino, ce la devo fare con pochi soldi. E così ho fatto. A tutt'oggi non mi sono ancora procurato un bancomat nuovo, e sto sopravvivendo coi dollari guadagnati in Vietnam.
Ah, per la cronaca, sono in Canada.
E' successo tanto tempo fa che una scimmia (un macaco dorato, per la precisione) mi si addormentasse in grembo, salvo poi svegliarsi di soprassalto e mordermi una mano. Ovviamente in Lao, nel villaggio più sperduto del mondo. Pace, è andata senza problemi, né infezioni né nulla.
Sono arrivato in Asia e ho scoperto di avere dimenticato tutte le medicine a Milano. Ho comprato alcune aspirine sfuse in un garage adibito a farmacia-edicola-negozio di fotocopie un giorno che avevo un mal di testa terribile, per via della sinusite.
Ho mangiato di tutto, ovunque, per strada, nei pullman, ho dormito in posti che pullulavano di animali sia dentro che fuori dalla zanzariera, oppure sulle panche di legno delle stazioni degli autobus, tenendo ben stretto lo zaino con l'attrezzatura fotografica. Mi sono lavato i denti per mesi con l'acqua del rubinetto lasciandola correre finché smetteva di essere marrone, ho mangiato frutti di mare cotti e crudi, ho provato cibi davvero insoliti, come la vagina di mucca candita oppure gli occhi di pesce o i vermi di mare essiccati avendo solo un lieve disagio negli ultimi giorni.
Ho anticorpi grossi come salmoni.
Ho perso dodici chili.
Ho fatto un bel po' di foto, alcune belle, altre solo per ricordo mio, le classiche foto delle vacanze (inclusi i tramontini sulla spiaggia, Sandro, ebbene sì!)
Ho cercato di imparare tante cose nuove. Alcune sono riuscito anche ad impararle.
La più importante è che viaggiare è un bel modo per conoscersi meglio, anche se non è l'unico.
Stasera torno, con l'aeroplano.
Oppure, come già aveva sospettato Giovanni, esco finalmente dallo scantinato del Giambellino in cui sono rimasto nascosto per tutti questi mesi e da cui vi ho scritto tutte le cose che avete letto sul mio viaggio.
Completamente inventato.

DAG

lunedì 16 giugno 2008

L'ultima sera a Saigòn.

Scusate, ma secondo voi, sapendo quanto mi piace Saigòn e quante cose ci sono da fare qui io l'ultima sera in Vietnam la passo attaccato al computer a scrivere il blog?
Ma dài, son mica scemo...
Vi abbraccio tutti!!!

DAG

Una ricetta.

Trascrivo qui di seguito la ricetta che mi è stata passata, con grande entusiasmo, da MIss Thuy su un importante capitolo della cucina italiana.
Gli spaghetti col pomodoro.
Piccolo preambolo: qui in Vietnam la cucina italiana è venerata e chi sa cucinare un piatto tipicamente italiano può farsene un vanto. La spiegazione della ricetta è stata fatta nell'inglese di Miss Thuy, un adorabile slavina di vocaboli che inizialmente sembrano appartenere alla lingua inglese ma poi terminano tutti con lo stesso suono confuso e inciampato. Cercherò di tradurre in un italiano che renda l'idea.
"Sì sì lo so come si fa a cucinare in modo italiano, so anche fare gli spaghetti con...ehm...con la patata."
"Con la patata?!?" - "Eh, sì! Ah no no no no no! Col pomodoro, scusa".
"Ah, ok. E come si fa?"
"Eh, sì, dunque, si prende l'acqua e si fa come quando si fa la zuppa e si prendono tutti gli spaghetti e si mettono dentro. Poi si prende il - cos'era? Potato? Ah no! Il pomodoro! e si cuoce tanto tanto finché diventa acqua (!) poi si tagliano le cipolle a fettine e ci si mette anche l'aglio."
"Ma scusa dove si mette tutto questo aglio e questa cipolla, Miss Thuy?"
"Si mettono assieme con olio, burro, margarina.... e burro".
"Ancora?" - "Eh, sì, ce ne vuole tanto di burro!" - "Beh, cucina mediterranea, quindi..." - "Cosa è MERRANEA?"
"No niente, prego, continua pure".
"Ah, sì, poi si prende tutto si mette in una scatola e si mette nel microonde."
"NO!!!" - "Cosa no?" - "Ma no!, Che schifo! Cosa metti nel microonde la pasta col sugo per cucinarla!"
"Guarda che se fai così viene buonissima!" - "E poi cos'è 'sta storia della scatola?" - "Ma sì, dài... viene buona, non mi credi?"
Quando torni una sera cucino per te!
A questo punto non so se tornerò, in Vietnam.

DAG

Il boa in giro.

Post brevissimo, un po' per accontentare Paola che l'altro giorno mi ha detto: "Eh, ma Dag, scrivi testi troppo lunghi! Ogni volta che vedo un post nuovo mi devo mettere lì e dire: Ok, adesso ho tempo, me lo posso leggere. E quindi, siccome non ho mai molto tempo, ogni tanto capita che rimando e rimando..."
Il titolo è volutamente collegato al post precedente, ma l'umore è molto diverso.
Vi ho già detto che i vietnamiti sono in grado di trasportare di tutto, ma proprio di tutto tutto tutto sui loro motorini.
Ecco, ieri stavo andando dallo stampatore e son passato di fianco ad un motorino con attaccata dietro una enorme gabbia. Dentro, un serpente. Grosso, molto grosso. Il serpente stava tranquillamente fermo immobile e imperturbabile in mezzo all'infernale traffico di Saigòn. Il guidatore guidava il motorino imperturbabile nell'infernale traffico di Saigòn.
Chi capitava di fianco alla gabbia immancabilmente notava le spire del grosso animale, ma non mutava espressione del viso né diceva nulla. Come se a Milano noi passassimo di fianco ad una Smart.
Invece l'altro giorno ho visto proprio una Smart. La prima da che sono qui in Asia. Chi passava di fianco alla Smart le rivolgeva sguardi stupiti, si distraeva dalla guida, aggrottava le sopracciglia di fronte a questo strano fenomeno della meccanica. Erano facce abbastanza schifate, se devo essere sincero.
Al prossimo che mi dice che gli fanno schifo i serpenti dirò che a me fanno schifo le Smart.
Tanto l'ho sempre detto!

DAG

martedì 10 giugno 2008

Il giro di boa.

Non mi sono mai piaciuti più di tanto, i "The Doors". Ma ora, mentre vi scrivo, sto sentendo "This is the end", un pezzo lunghissimo e psichedelico, che fa da colonna sonora anche ad un noto film sulla guerra qui in Vietnam. La guerra americana.
E' un pezzo malinconico, cantilenato, stralunato, che invita a lasciarsi andare. Ed il pensiero a cui mi sto lasciando andare è quello del non voler andare via. Da qui.
Ho la mia stanza, che ogni mattina viene invasa dai profumi delle cucine sulla strada, la routine quotidiana è accompagnata dai richiami dei venditori e dai clacson del vialone dietro casa. Mi lavo, mi vesto bene. Poi inizia la giornata lavorativa, con appuntamenti, giri, visite, pause che utilizzo per studiare, scrivendo ripetutamente sul quaderno le frasi che ho imparato. Mi fermo in un bar o ad un banchino per strada, tiro fuori i quaderni e le penne dalla borsa, prendo appunti sull'ultima conversazione avuta e poi studio un po'. Se ho fame mi mangio un riso o qualcosa.
Magari faccio qualche telefonata, mi organizzo per l'aperitivo, che qui viene fatto sempre a birra, ma al posto delle focaccine e della pasta scotta con i fagioli ti portano frutti di mare e granchi. E noccioline fresche, tenerissime. E non ci sono neppure i fichetti intorno.
Ho un motorino. L'ho affittato per tre dollari al giorno, e una volta entrato nel traffico di Saigòn è passata la paura. Ho scoperto di avere un senso dell'orientamento che in Italia non ho mai avuto, nemmeno a Milano, dove mi sono guadagnato il sarcastico soprannome di tom tom (grazie Ale, sei sempre un tesoro...). Il mio motorino è un Honda Dream, uno dei modelli più venduti nella storia del motociclismo. E' funzionale al massimo, l'estetica non lo sfiora neppure da lontano. E' il tipo di motorino su cui i vietnamiti sono in grado di trasportare di tutto, come vi ho già raccontato. Gli ho fatto il pieno quattro giorni fa. Due dollari. Lo sto usando davvero molto, girando la città in lungo e in largo, e solo oggi dovrò rimetterci altra benzina. Guidare non sembra pericoloso, ma è molto diverso che guidare in Italia o in occidente. Bisogna tenere un'attenzione costante a 360 gradi, perché tutti arrivano da tutte le parti, semaforo verde o no. Non è infrequente incontrare motorini che vanno tranquillamente contromano anche nei viali più grossi. Il vantaggio è che la velocità generale è molto bassa. Il motorino, quando inutilizzato, viene lasciato di fianco ad altri motorini, il casco appeso al manubrio, si tolgono le chiavi come unica precauzione. Per il resto nessuno tocca nulla. Di notte parcheggio nella hall del mio albergo, in cui il custode (un ragazzo che passa la notte, ogni notte, dormendo su un tavolo di vetro) tira giù la serranda alle undici.
"Ma non ti senti solo?" Mi ha chiesto Gregory in chat un po' di tempo fa.
Ieri pomeriggio dopo il lavoro sono andato nel secondo distretto, nel quartiere di Phùc, il mio amico e assistente. Poco dopo siamo andati a prendere l'aperitivo con uno dei suoi migliori amici, che lavora negli uffici della polizia di Saigòn e ha le mani in pasta in molte cose. Phùc ha detto che gli sto simpatico, al suo amico. Abbiamo passto un buon pomeriggio.
Mi vedo quasi ogni giorno con miss Thuy, la manager della galleria in cui espongo le foto, che ormai è diventata mia amica.
Il carrettino delle colazioni è oramai un punto di incontro fisso in cui si svolge una sorta di riunione mattutina. Il carrettino ha l'aspetto rustico quanto basta per tenere lontani i turisti e quindi ci vengono solo occidentali stabiliti qui e vietnamiti. Ci si ritrova più o meno tutti alla stessa ora e un tizio improvvisa una lezione di vietnamita, insegnando cose nuove e pronuncia a me e ad altri occidentali, che solitamente sono professori di inglese oppure curiosi.
Domenica mattina miss Thuy mi ha invitato ad andare in galleria perché c'è luna troupe televisiva che girerà un documentario sulla galleria e sulla fotografia a Saigòn. Vuole che ci sia anche io.
"Alle sette e mezza! Sei contento?" - "Eh, certo che son contento..."
Poi andremo a cena fuori tutti insieme.
No, non mi sento solo.
Certo, il livello delle conversazioni non può essere lo stesso che con i miei amici in Italia, e quello mi manca, ma no, non mi sento solo.
Giro con gli stessi vestiti più o meno da sei mesi, con gli stessi oggetti, pochi. Una delle regole che mi son dato per questo viaggio è stata: se compro per me qualcosa di un certo peso o di un certo ingombro, devo abbandonare qualcosa di pari peso o volume. Così un po' di oggetti sono nuovi, altri non li ho più. Sono semplicemente rimasti in giro, regalati a chi mi stava simpatico. Oppure barattati direttamente al negozio. Tipo la Lonely Planet della Cina e il manualetto di mandarino, allegramente scambiati per alcuni vestiti, portachiavi e altre cose tutte vietnamite. I miei jeans strapazzati e tutti stracciati, (sì, mamma, quelli corti che non potevi sopportare, che mi dicevi "Sembri un barbone") se ne sono rimasti in Lao. Erano Levis originali, il ragazzo cui i ho regalati era tutto felice! La cintura l'ho regalata a Jun, il mio amico giapponese.
Abbiamo bisogno di pochi oggetti. I libri si scambiano che è una bellezza, quindi ho potuto continuare a leggere senza interruzione. Rigorosamente in inglese, però. Se diventasi stanziale, ovvio, incomincerei ad accumulare cose, ma è un processo naturale.
Se dovessi ripartire adesso farei uno zaino molto, molto più piccolo. Ricordo lo zaino di Enrico, l'amico italiano incontrato in Lao, che sarebbe stato via un anno e mezzo. Era un terzo del mio, e conteneva anche un ukulele.
Me lo aveva detto, il caro Enrico.
Attento al quarto mese.
"Perché?" Gli avevo chiesto io - "Il quarto mese è il giro di boa".
Fino al quarto mese si avverte la voglia di tornare, che a volte ci attanaglia come i crampi della fame, poi, al pari della fame, lo stomaco si restringe, e ci si sente a posto. La nostalgia, il ricordo di casa, suscitano sempre piacere, ma si entra in una bolla a parte, si incomincia a sentire una certa paura all'idea di essere catapultati in mezzo alla vita di prima. Come uno che ha fatto una operazione alla faccia e ha voluto farla ma poi ha paura di togliersi le bende e di guardarsi allo specchio. E si sta bene nella situazione nuova, ci si incomincia a costruire legami con i posti, per strada mi saluto con le persone. "Ciao Unréal!" Non riescono a dire Andrea, gli viene fuori Unréal. Irreale.
Buffo, no? Proprio adesso che io mi sento così bene qui, che mi mescolo tanto volentieri con queste persone e con questi odori e con questi posti divento "irreale".
Ricordo che una volta, avevo diciassette anni, mio padre mi disse: "Ero sul tuo autobus, stamattina, mentre andavi a scuola. Ti vedevo da lontano, io ero in fondo e tu eri davanti. Madonna che faccia arrabbiata che avevi!"
Proprio ieri notavo che le persone che incontro qui per strada (locali o occidentali) e con cui incrocio lo sguardo mi fanno un sorriso di rimando. Evidentemente la mia faccia non è la stessa di quando ero in Italia. Anche se a diciassette anni si è sempre un po' incazzati col mondo, è ovvio.
Era per dire che qui io mi sento sorridente.
Ricordo anche una frase di un professore di architettura, in un corso del primo anno: "Voi avete scelto una facoltà difficile, non difficile in sé, magari, ma difficile perché vi chiederà sempre di fare delle scelte, e di sostenerle e portarle avanti. Ricordatevi che dovrete fare scontenti tutti. Se ritenete che la vostra scelta sia giusta."
Tornerò in Italia, perché la mia scelta è quella di tornare e di portare avanti le cose per come le ho impostate qui e non avrebbe senso cancellare tutto il lavoro fatto a Saigòn proprio per stare a Saigòn. Ho stretto contatti che vanno fatti fruttare, e il modo per farli fruttare è far leva dall'Italia, quindi adesso dovrò lavorare da lì. Ma non escludo di tornare presto da queste parti.
E' che quando si tratta di andare via da un posto bello divento sempre un po' malinconico, e mi vien la voglia di lasciarmi andare.

DAG

martedì 27 maggio 2008

Scene da un matrimonio.

"Andrea, domani Huì ti invita per delle foto!" Mi dice il mio amico e assistente Phùc. "Ah, bene, vengo volentieri" Huì è un fotografo amico di Phùc, un personaggio all'interno della compagnia, uno che ha avuto un sacco di ragazze ed è considerato uno sciupafemmine, anche se porta sul volto i segni di un grave incidente stradale. E' pieno di cicatrici. Huì è il classico bello e dannato, sempre senza quattrini, artistoide, dai modi spiccioli e consapevole di avere un ruolo di trascinatore all'interno del gruppo. Huì fa il fotografo da quattro anni (ne ha ventisette) ed è considerato un "fico" perché guida una vespa. Una vespa d'epoca, anni sessanta, bianca e azzurra, che a Milano varrebbe una fortuna. E' furbo, Huì, e molto vispo, per questo le foto che gli ho dato da vedere sul cd erano assolutamente protette, impossibile stamparle o venderle.
"A che ora ci vediamo?" Ho chiesto a Phùc "Alle sette" mi ha risposto in modo piatto. "Come alle sette!? Di mattina??" - "Sì, certo. Ti passo a prendere alle sette" e ha messo giù.
Ecco. Bene.
Alle sette meno cinque stavo bevendo un caffè per strada, pronto e col casco in mano, per andare a vedere queste foto che evidentemente non potevano aspettare oltre, data l'ora dell'appuntamento.
"E la macchina fotografica dov'è?" Mi ha chiesto Phùc non appena mi ha visto. "Ma come? Non dobbiamo vedere delle foto?" - "No, devi farle!" - "Ah. Beh, vado a prenderla! Ah, scusa, così, giusto per curiosità, cosa dovrei fotografare?"
"Due che si sposano."
Siamo arrivati nella piazza della chiesa (che i vietnamiti, in barba a qualsiasi copyright, hanno chiamato "Notre Dame") e ci siamo messi ad aspettare Huì e gli sposi. Phuc indossava un maglione, io camicia aperta e ciabatte. "Phùc, non hai caldo?" Eravamo anche al sole. "Oh, no!! E' mattina presto, di mattina presto non fa caldo."
Va bene.
La chiesa apre solo poche ore al giorno, quindi la gente non può entrare a pregare. I vietnamiti, per lo meno la minoranza cristiana, non si danno certo per vinti: parcheggiano il motorino e, casco in testa, si inginocchiano nel piazzale antistante la chiesa per pregare a mani giunte. Alcuni fedeli sono ragazze accompagnate dal marito. Le ragazze, rosario in mano, pregano mentre il marito, seduto sul motorino di fianco a loro, si fuma una sigaretta. Poi riaccendono il motorino e vanno via.
Arriva una telefonata. "Dobbiamo andare al parco, si stanno truccando". Non sicuro di aver capito, salgo in sella e mi faccio portare nel giardino di fianco alla chiesa, dove la truccatrice ha portato la valigia con il necessario e sta truccando a fondo la futura sposa. Su una panchina al parco. Mentre comincio a fotografare la truccatrice sta mettendo le ciglia finte alla sposa, un soffio di vento fa volar via l'altro ciglio finto. Fermi tutti! Tutti in ginocchio nell'erba a cercare il ciglio finto. Gente passa e si complimenta con la sposa per il lieto evento, oppure guarda ma non dice nulla.
Intanto lo sposo è ritornato ai giardini anche lui. "Come mai era andato via?" Chiedo a Phùc. "Aveva dimenticato le scarpe. Era in ciabatte." - "Ah, capisco". Poi ho scoperto che lo sposo possiede tre negozi di scarpe, nella via (appunto) delle scarpe. E' un classico che si fosse dimenticato proprio di quelle.
Intanto il fotografo ufficiale ed io ci mettiamo a chiacchierare della vespa, lui mi dice che sa che la fanno in Italia, ma non sa dove sia l'Italia. "Che soldi usate in Italia?"
Poi scambiamo alcune informazioni tecniche su come devono essere fatte le foto per gli standard locali e incominciamo a fotografare. La sposa si deve ancora vestire e la chiesa è ancora chiusa, i cancelli sprangati.
"Ma quando entrano in chiesa, gli sposi?" Chiedo ancora a Phùc "Oh no! Non entrano in chiesa! Non si sposano in chiesa oggi!" - "...Ah... e dove si sposano?" - "Qui, al parco, o fuori." - "Eh? Un matrimonio all'aperto?" - "No, no... non capisci... il matrimonio non è oggi. Oggi è finto!" - "Come finto!? E quando si sposano?" - "A luglio." Ci capivo poco. "E come mai oggi si fa questo matrimonio finto?" - "Per le foto. Huì era libero solo oggi." Praticamente il fotografo qui lavora (alle dipendenze del padrone che possiede studio e attrezzatura) sette giorni su sette. Il primo giorno libero sarebbe stato a luglio. Non può lavorare da solo perché non guadagna abbastanza da comprarsi una macchina fotografica e tutto quel che servirebbe di contorno. Una galera.
"Ma scusa, allora tutto viene fatto qui fuori? Ai giardini?" - "Oh, no. Dopo andiamo all'ufficio postale." - "Che bello!" Un bel matrimonio davanti alle poste, ve lo immaginate? Eppure qui lo fanno...
Adesso la sposa sta andando, accompagnata dalla truccatrice e dalla fidanzata del fotografo, a vestirsi da sposa. Dove? Nei cessi dell'ufficio postale!
Lo sposo invece si cambia direttamente ai giardini, aiutato da Huì e dall'assistente fotografo che allaccia la camicia al futuro marito e lo tiene al fresco con un ombrellino.
La sposa, in tutta la giornata, cambierà tre vestiti. Qui non è come da noi (a questo punto del racconto forse ve ne eravate accorti) neanche per quanto riguarda il vestito: La futura moglie noleggia i vestiti da sposa (sempre più di uno) direttamente dallo studio fotografico, che li possiede, e così fa lo sposo. Non si fanno foto in chiesa. Invece si mette in atto ogni possibile scenetta in modo da raccontare per immagini la storia d'amore tra i due sposi: lui che la aspetta con il telefonino all'orecchio, appoggiato ad una palma e lei che spunta da dietro un'altra palma, lui che le fa attraversare la strada, lui che guida il xiclò e la porta in giro (sudando come un maiale, povero) lui che corre da lei portandole un mazzo di fiori, lei che lo aspetta guardando verso il cielo con aria sognante.
Poche storie se la sposa è timida, queste scenette devono essere realizzate in mezzo alla strada, la regia è fatta dal fotografo, con buona pace per le titubanze della sposa. Il marito, un grassottello commerciante di scarpe dalle unghie lunghissime, ben volentieri segue le direttive dello staff creativo, cui mi unisco volentieri, sfogando anni di frustrazioni e proponendo le cose più bizzarre che mi vengono in mente, dopo anni in cui i miei sposi, quelli che mi capita di fotografare in Italia, come unica richiesta hanno quella di evitare le foto in posa, salvo poi volerle all'ultimo momento.
Finiamo la sessione fotografica su un ponte, il famoso ponte sotto cui ero passato con la barca-ristorante poche sere prima. Se visto da sotto il ponte era un normalissimo ponte, visto da sopra era altrettanto banale. Oltretutto minacciosi nuvoloni si stavano accumulando nel cielo sopra di noi e già si sentiva l'odore della pioggia portato dal vento. Il ponte non offre nessun riparo, sembra di essere su un'autostrada. La sposa, vestita questa volta da caramellona rossa, tutta fiocchi e sbuffi di acrilico, sta correndo mano nella mano con il marito su e giù per il ponte, evitando talvolta per un soffio di farsi travolgere dalle auto e dai camioncini che le sfrecciano di fianco. Noi dobbiamo fotografare la folle corsa sotto i primi goccioloni d'acqua che arrivano a colpirci pesanti e sempre più fitti. L'estetica della cosa sinceramente mi sfugge, ma ho imparato a non farmi troppe domande.
Arriviamo dall'altra parte del ponte sotto una doccia inimmaginabile, le macchine fotografiche ben protette sotto la sella del motorino, noi grondanti acqua come dopo un tuffo in mare.
A casa di Phùc la madre sta lavorando alla macchina da cucire, Phùc mi dice di togliermi la camicia e mi da una sua maglietta. Poi prende il ferro da stiro e si mette a stirare la mia camicia. "Phùc, cosa fai?" - "Asciugo la tua camicia."
Un tesoro.
La mamma intanto ha tagliato un mango e ce lo serve, assieme a due coca cole. Mangiamo le fette di frutta condite con sale e pepe, mentre tutti si cambiano. La madre fa la sarta, quindi ci sono vestiti per tutti: la fidanzata del fotografo si mette un pigiama. Intanto ha smesso di piovere e ci dirigiamo verso il ristorante.
Al ristorante il marito la fa da padrone, offrendo da mangiare e da bere a volontà a tutti, ma si capisce lontano un miglio che l'attrazione del pranzo sono io, lo straniero. Un po' mi dispiace, non vorrei rovinare l'atmosfera del momento, un po' accetto la cosa, non mi sembrano persone molto attaccate alla forma, visti i precedenti. Si uniscono alla nostra tavolata alcune persone che non avevo notato prima: due ragazzine (anche loro in pigiama) e un paio di individui che non capisco se siano amici o parenti. Ma tanto qui in Vietnam si chiamano tutti e'moo'i, "fratellino" o "sorellina" anche se non si conoscono.
Intendo dire che al ristorante per chiamare il cameriere, l'espressione usata è "Fratellino, mi porti questo o quello?"
Il pranzo è colossale, ci sono almeno sette portate differenti, tre zuppe, carni di tutti i tipi. Phùc mi chiede: "Puoi mangiare alcuni insetti?" - "Certo!" Gli rispondo, sperando che non sia questo il momento. "E tu?" - "Io sì, ma qui non li hanno." - "Beh, dai, pazienza..." Gli dico, battendogli una mano sulla spalla. Mi rendo conto che sono abbastanza ubriaco, per via dei numerosissimi brindisi. Non me ne importa nulla. Son qui pacifico e felice, con questa sposa distrutta dalla fatica seduta davanti a me e al tavolo con questa gente strampalata con cui però mi trovo bene (forse dovrei togliere il "però?) pieno di ottimo cibo e contento per aver lavorato con loro; unico rammarico è quello di non poter parlare vietnamita correntemente.
Non ancora.
Concludiamo la giornata in una sala da bigliardo, dopo aver lasciato le donne a casa del fotografo, ormai tutte in pigiama.

DAG

lunedì 26 maggio 2008

Folla oceanica.

Alla inaugurazione della mia mostra non è venuto nessuno. Non sono triste, non preoccupatevi, non mi aspettavo certo di dover fendere la mandria dei fans bombardato dai flash dei colleghi, è stato carino lo stesso.
Sono arrivato alla galleria e le foto erano già lì (i vietnamiti sono puntualissimi), incorniciate e pronte per essere appese, appoggiate ai muri o ad altre foto di formato più grande. Ad accogliermi le persone che lavorano nella galleria, tutte parecchio giovani, dirette da miss Thùi, la giovane manager che si prende cura di me e mi prepara i contratti.
Ho comunque portato con me la macchina fotografica per documentare l'evento e mi sono vestito bene per l'occasione, il che vuol dire pantalone nero con riga (ormai ex riga) camicia bianca e scarpa gialla.
Abbiamo fatto alcune foto con lo staff e ho documentato il fatto che le immagini sono state esposte, ci siamo fatti alcune foto in posa facendo gruppo davanti alle immagini. Poi abbiamo visto i contratti, ma c'erano alcune cose che non andavano bene ed erano pieni di errori, quindi Thùi mi ha detto che li avrebbe riscritti, se potevo tornare nesquik.
Nesquik significa "next week".
Ma chi ha scritto i contratti? Le ho chiesto. "Macìste!" Mi ha risposto. Maciste è "My sister", mia sorella.
L'inglese di miss Thùi è uno dei più teneri che abbia mai incontrato. Siccome volevo fare una sorta di festeggiamento per l'occasione ma non sapevo bene come fare ho pensato bene di invitare miss Thùi a cena fuori, per fare un regalo a me e per ringraziarla delle attenzioni nei miei confronti.
Ho comunque avuto il tatto di fare l'invito senza farmi sentire dalle colleghe, visto che in questi ambienti il gossip è feroce e per una ragazza locale può essere compromettente uscire con uno straniero.
Miss Thùi ha ventisette anni.
Ci siamo dati appuntamento per le sei al molo opposto alla galleria fotografica, cosa che mi ha confermato che non voleva essere vista dal resto dello staff. Io ho pensato bene di essere in ritardo di due minuti (due di numero, non scherzo) e mi ha telefonato per dirmi: "Aamìi, uéiàiù?" (Io sono qui, tu dove sei?) con tono stupito e preoccupato. Puntualità confermata. Sono arrivato un po' trafelato e scusandomi, l'ho trovata sorridente ad accogliermi, vestita in modo informale, ma ugualmente carina.
Le avevo proposto di andare a mangiare il pesce, e per tutta risposta mi ha detto: "Ok, il pesce lo posso anche mangiare, ma non mi piace!" Ovvio che ho trovato un'altra soluzione. I vietnamiti sono di un candore disarmante, come avremo modo di vedere più avanti.
Le ho proposto di andare da Nàm Bò, "I Cinque Manzi" (ormai un po' di vietnamita lo mastico, anche se è difficilissimo) che poi è il posto in cui ero stato a mangiare con Nakano il giapponese e la vietnamita elegante, ma Thùi ha rifiutato, dicendo che era troppo lontano. Però conosceva il posto e avevo scelto bene. Mi ha detto: "Ma perché non mangiamo qui? Indicando uno dei battelli ormeggiati sul Saigòn river, battelli che ospitano ognuno un ristorante, la classica trappola per turisti.
Ero un po' riluttante, ma ho accettato lo stesso, visto che faceva piacere a lei, oltretutto ho capito che lì non avrebbe potuto incontrare nessuno che la conoscesse, evitando quindi di compromettersi.
La cena è andata benissimo, le difficoltà della lingua sono state superate in maniera brillante e lei si è rivelata un'ottima commensale, bevendo birra (con moderazione) e mostrandosi sempre sorridente, senza risparmiare anche alcune frecciatine su di me. Il cibo non era buono, del resto io non avevo neanche fame, visto che avevo mangiato alle tre del pomeriggio e alle sei ero nuovamente a tavola. Ad un certo punto tutto il pavimento ha iniziato a tremare, Thùi ha detto: "Evviva, si parte!"
"Come, si parte?" - "Sì, andiamo a fare un giro!"
Vero! Il barcone, pochi minuti dopo, si è staccato dal molo per andare a fare un giro di un'ora lungo il Saigon river. "Arriviamo fino a vedere il ponte!" Mi ha detto tutta eccitata, come se stesse svelandomi un segreto piccante. "Bello! E' un ponte speciale?" - "Passa da una parte all'altra del fiume", mi ha spiegato. Mi sono sorpreso a fare di sì con la testa tutto sorridente, mentre mi chiedevo a che cosa servisse un ponte se non per andare da una parte all'altra di un fiume. Ma vabbè, mi son detto, io vedo le cose all'occidentale.
Invece il giretto è stato proprio bello, abbiamo visto tutti i palazzi più alti della città, gli hotel più lussuosi, illuminati nella calda notte di Saigòn e Thùi ha fatto un sacco di foto col telefonino. Ho capito che per lei era comunque un'esperienza bella, ci stavamo sinceramente divertendo.
Mi ha raccontato che prima di lavorare come manager per la galleria di mr. Minh aveva lavorato in una agenzia di pubblicità, perché sa usare il computer, poi due anni fa ha cambiato lavoro. Lavora nella galleria sette giorni su sette, undici ore al giorno con due ore per la pausa pranzo. Nella pausa pranzo, dopo aver mangiato, si sdraia dietro la scrivania e dorme. Poi si sveglia e continua a lavorare. Solo due giorni al mese può stare a casa dalla galleria, ma lei non lo fa quasi mai. Quattro mesi fa ha comperato un ristorante, molto piccolo, solo sei tavoli, ma con tanti sgabelli! (come ci ha tenuto a precisare) e tra un anno lo vende e ne compra uno più grosso.
Ripeto, ha solo ventisette anni.
Alla fine del giro il il cameriere è venuto a portarmi il conto; mi aspettavo una sassata, ma è stato molto peggio. Seicentocinquantamila Dòng!!! Una cifra spropositata! Solitamente mangio con dieci - quindicimila.
Ho ovviamente pagato senza batter ciglio, contento di aver preso una bella mazzetta di banconote prima di uscire di casa, ché non si sa mai. Ci sono rimasto un po' male, ma ovviamente non l'ho dato a vedere.
"Adesso ti porto con il motorino fino al tuo albergo" mi ha detto Thùi una volta sbarcati. "Magari vuoi guidare tu?" - "No, grazie, per me va benissimo se guidi tu". So che è un'altra cosa imbarazzante per una ragazza di qui farsi vedere alla guida di un motorino con uno straniero al seguito a meno che non sia il compagno, ma davvero preferivo che guidasse lei nel folle traffico di Saigòn. Quando siamo arrivati a destinazione mi ha detto: "Sono molto felice della serata. Grazie" diventando tutta rossa, poi ci ha pensato un po' su e ha aggiunto: "E' stato come andare in vacanza nella mia città". Vero anche questo, e vero anche per me. E' stata la classica cosa per turisti, con spettacolino e pianobar inclusi, ma ce la siamo goduta fino in fondo. Salendo le scale per tornare nella mia stanza ho fatto due conti.
Seicentocinquantamila dong sono l'equivalente di dodici euro a testa.
Uguale a panino - birra - caffè nel più normale bar di Milano, se non sbaglio.

DAG

venerdì 23 maggio 2008

Saigòn Photo gallery.

In questi giorni di frenetica attività a Saigòn non ho solo svolto la mia indagine sulla possibilità di lavorare con le case editrici vietnamite, ho anche cercato e trovato un laboratorio fotografico che stampasse in buona qualità le immagini migliori tra quelle scattate durante questo viaggio.
Come ho già avuto modo di raccontare, qui le aree commerciali sono a tema, c'è la zona dei computer, quella delle ciabatte e la zona dei laboratori fotografici professionali, il paradiso del fotografo, diciamo.
Al centro della strada dei laboratori sta il Vietnam Lab center.
Il Vietnam Lab center raccoglie quasi tutte le immagini da stampare per la città di Saigòn, in quanto ha un retrobottega enorme, una vera e propria fabbrica, con tre "Lambda". Il Lambda è una macchina da stampa dell'ultima generazione, dalla qualità e dal costo estremi. Tale centro è gestito da una coppia probabilmente troppo impegnata per godersi il fatto di essere benestante, ma comunque gentili e disponibili. Lei, la signora Vàn (in effetti è un po' grassottella) sta in negozio, coordina tutti i lavoranti e si occupa dei clienti grossi, lui, mister Dinh Minh, era un personaggio fino ad oggi a me ignoto.
Dopo aver passato tre giornate intere a contrattare, a metterci d'accordo sui prezzi, sulle modalità di spedizione e di pagamenti futuri con la signora Vàn e la sua interprete, oggi sono andato finalmente a ritirare le stampe che ho fatto fare. Una settantina, belle grandi.
La ragazza che parla inglese ed è diventata la mia referente mi ha detto: "Aspetta un attimo che il boss vuole vederti" e ha preso il telefono in mano.
"Perché vuole vedermi il proprietario del negozio?" Mi son chiesto.
Un vago sospetto ce l'avevo e dentro di me stavo già sorridendo, ma non volevo farmi illusioni, poteva essere anche che avessero sbagliato a dirmi il prezzo e dovevo pagare il doppio.
Quando Mr Minh è arrivato ho capito subito che il prezzo che mi avevano fatto era giusto e che lui era sinceramente felice di incontrarmi.
Mr Minh è un fotografo professionista, titolare del centro e il personaggio che tira le fila di molti piccoli fotografi in Saigòn. Le immagini che coprono le pareti del laboratorio sono tutte sue, e anche qualche immagine pubblicitaria che si può vedere in giro per la città.
Mr Minh (che io ho chiamato in sbaglio, un paio di volte, Mr Bìn, scusandomi subito dopo) è piccoletto, coi baffi e i capelli arricciati, tenuti un po' lunghi. I capelli lunghi e arricciati devono essere una sorta di status symbol, un segnale che comunica: "Guardate che io sono un artista", non è il primo caso che mi capita di osservare.
Mr Minh non parla una parola di inglese, ma il suo sorriso entusiasta mi ha comunicato subito molte cose. Ci ha tenuto a dirmi che lui è un fotografo professionista, specializzato in immagini panoramiche, e che le mie fotografie gli erano piaciute molto. "Qui vengono molti fotografi a stampare, ma le tue mi hanno proprio colpito!" Bene, grazie, sono molto contento di questa cosa. Gli ho regalato un cd con le mie immagini migliori, anche se in bassa risoluzione e protette dal mio marchio. E' stato felicissimo. Intanto si era messo a piovere e lui mi ha regalato un impermeabilino pieghevole, poi mi ha fatto una proposta.
"Io sono anche titolare di una delle gallerie più famose di Saigòn! Molti clienti vietnamiti vengono a comprare le fotografie da me quando vanno ad abitare nelle case nuove, magari dopo che si sono sposati. E ci sono sempre anche clienti stranieri", ha tenuto ad aggiungere.
"Ti va di esporre da me?"
Urca.
Ci ho pensato un attimo, poi gli ho detto che nel pomeriggio avrei avuto alcuni appuntamenti e che gli avrei fatto sapere.
Era vero, gli appuntamenti li avevo, e avrei usato il mio tempo per pensare. Dalla parte del no c'era il fatto di dover spendere per le cornici e fare un investimento che non sapevo se sarebbe rientrato, oltretutto non saprei come intascare gli eventuali soldi del venduto, visto che tra pochi giorni (ahimé) partirò da qui.
Dalla parte del sì c'era la possibilità di fare questa esperienza, un bel regalo al mio narcisismo, e la possibilità di usare questa cosa come grimaldello per i prossimi appuntamenti di carattere commerciale. La galleria è, in effetti, situata nel centro del centro di Saigòn, come fosse piazza Venezia a Roma o in Galleria a Milano.
Se il futuro è la "location", come dicono, non potevo avere posto migliore.
Sono tornato al centro di stampa dopo i vari colloqui con editori e direttori di testate e ho fatto telefonare a Mr Minh, per sapere quante foto potevo esporre.
Cinque può essere un buon numero, mi dice la ragazza. Decido di proporre sei, preferivo. "Ok, sei va bene".
Mi consegna un cartoncino con un indirizzo di un altro centro e mi dice di andare là, che una persona mi avrebbe accompagnato alla galleria.
La persona in questione era una bella ragazza vietnamita in elegante divisa da ufficio che mi ha accolto con un luminoso sorriso e mi ha detto: "Ah, lei è Mr Dàg! Prego, mi segua."
Ho evitato di mostrare emozione alcuna, ma dentro ero tutto felice. Stavo anche sudando come un idrante, forse per l'emozione. Sicuramente per l'emozione, visto che pioveva e non faceva tanto caldo.
L'interno della galleria era già ingombro di foto, tutte incorniciate, alcune molto grandi, quasi tutte fatte da Mr Minh, quelle per lo meno che portavano una firma. La ragazza, molto gentile ma non cerimoniosa, mi ha portato subito un bicchier d'acqua, poi mi ha guidato per un giro illustrativo della galleria, in realtà abbastanza piccola.
Il resto della mia visita l'ho passato con lei a vedere il contratto di vendita delle immagini, a parlare di prezzi e di modalità di consegna e di diritti di copyright, non molto romantico, ma rassicurante: i vietnamiti ci tengono a fare le cose per bene in merito ai diritti d'autore, è un argomento che nei colloqui con le case editrici viene sempre affrontato.
Gli eventuali soldi del venduto mi verranno accreditati sul conto, è la soluzione più semplice. Ma non crediate che negli altri stati del sud est asiatico funzioni così. L'ho detto che il Vietnam è speciale...
Bene, domani alle due verranno consegnate (in motorino, ci scommetto) sei fotografie formato 50x70 alla Saigòn Photo gallery, in elegante cornice di legno nero, che verranno tenute in esposizione a tempo indeterminato.
Alle tre brinderemo a questo mini avvenimento. Il mio problema adesso è questo: di recente ho disdegnato la frequentazione di turisti, e il giapponese Nakano è partito ieri pomeriggio per la Malesia. L'evento è troppo imminente per invitare i direttori e gli editori con cui ho fatto i colloqui e avere un minimo di certezza che verranno, ma ci proverò ugualmente.
Chi invito, altrimenti, T'aung, la mia amica in pigiama? Il ragazzo storpio che di proefssione scommette al bigliardo contro gli americani per vendetta? Oppure la donnina delle zuppe? O le "bamidulìn"?
Stasera esco e vado a cercare qualche possibile soggetto interessato...
Ma comunque, mi sono fatto un bel regalo.

DAG

giovedì 22 maggio 2008

Una serata elegante.

Il diciannove maggio ricorre l'Ho Chi Minh day, ovvero il compleanno di Ho CHi Minh, il leader che ha fondato il moderno Vietnam.
Zio Hò, come viene affettuosamente chiamato dai vietnamiti, in gioventù svolse il lavoro di pasticciere, in Francia, sotto la guida di Escoffier, e fu anche fotografo; in Vietnam è oggetto di un culto della persona che non accenna a diminuire.
Che fascino, questi fotografi...
Per il giorno di Ho Chi Minh in tutto il Vietnam si fa festa, a maggior ragione si festeggia nella città che dal '75 porta il suo nome.
Ed è proprio nella giornata di ieri che Nakano ed io siamo andati a festeggiare.
Chi è Nakano?
Eccovelo lì, un altro giapponese. Incontro Nakano ogni mattina, all'angolo di strada dove entrambi facciamo colazione. Una donnina installa molto presto una bancarella (un carrettino, in verità) all'angolo di una stradina del mio quartiere. Nakano ed io ci sediamo su questi sgabelli alti venti centimetri, vicino a tavoli alti quaranta, il tutto di plastica colorata, e ordiniamo la colazione. Uova strapazzate con cipolla e aglio, belle piccanti. La colazione arriva direttamente dentro il padellino di alluminio in cui la donnina l'ha cucinata ed è guarnita con prezzemolo, peperoncini interi, pepe, pomodori appena scottati, cetrioli tagliati sottili, tofu e un trito di noccioline. Il tutto è sfrigolante e meraviglioso. Ci viene data una baguette a testa, appena tolta dal forno e un bicchierone di caffè caldo. A mangiare vengono sia vietnamiti che turisti e generalmente Nakano ed io siamo quelli vestiti da ufficio. Pantaloni neri e camicia bianca, mangiamo tutti sbilanciati in avanti per non far colare tutto sulle braghe o far naufragare le uova sulla camicia. E' per questo motivo che ci siamo conosciuti, guardandoci e ridendo di noi, oltre che per l'abitudine a frequentare il solito posto (i giapponesi sono abitudinari e un po' anche io) e ci siamo, nella migliore tradizione asiatica, subito scambiati i biglietti da visita.
Nakano è l'amministratore delegato di una piccola società che compra e vende caffè in Giappone, Vietnam e Malesia. Ci interessiamo dei reciproci affari svolti il giorno prima mentre trangugiamo la colazione, poi ognuno va per la propria strada. Il giorno dopo, uguale. Nakano parla un inglese accettabile, ma io ho difficoltà a capirlo lo stesso. Dev'essere la mia condanna. Quando parla ha sempre la bocca piena, quindi non si capisce una mazza lo stesso. Nakano fa Kickboxing.
Ieri mattina mi ha detto: "Oggi è Ho Chi Minh day, grande festival per le strade. Io vado a vedere e faccio anche qualche foto. Vieni?"
"Dipende da come vanno gli appuntamenti, Nakà", gli ho detto. "Però mi piacerebbe!"
Alle tre del pomeriggio mi suona il telefono, il mio telefonino vietnamita: "Hello A'n dù réa, it's Nakano!"
" 'Oss Nakano San, come stai?" - "Bene, ma non c'è nessun festival. Solo qualche palloncino in giro e delle bandiere! Senti, stasera una mia amica vietnamita mi ha invitato a cena, vieni?" - "Volentieri, Nakano, grazie!" - "Dice che andiamo in un posto speciale, un po' strano."
Ahia.
Ai giapponesi piacciono le cose strane, e per i vietnamiti quasi nulla è strano, quindi se una vietnamita indica qualcosa come "strano" per noi sarà probabilmente oltre i limiti del paranormale.
Penso alla via con i cani appesi, prego che non sia quella la nostra destinazione.
Mentre aspettiamo la nostra ospite il giappo propone una birra, per socializzare meglio fra noi, mi dice chiaro e tondo.
Il taxi che siamo riusciti a trovare dopo averne scartati un po' (mai prendere i taxi che iniziano con il numero 9, hanno modificato i tassametri e le corse costano almeno tre volte più degli altri) ci ha lasciato ad una curva di una strada affollata di ristoranti e persone, tutti vietnamiti, tutti vestiti bene. Molte donne indossavano l'"Ao Dài", il tipico vestito elegante vietnamita, lungo e aderente, coperto da veli di seta bianca o rossa, che è una meraviglia a vedersi. Nakano ed io, giocandocela da businessmen navigati, eravamo eleganti e facevamo la nostra porca figura. La ragazza che era con noi, di cui non ricordo il nome, era in tailleur avorio, i capelli raccolti in un una crocchia stretta dietro la nuca in un'acconciatura da grande occasione.
La nostra eleganza ha fatto sì che fossimo perfettamente integrati con le centinaia di persone e di famiglie che affollavano il nostro ristorante e le decine di ristoranti attigui. Eravamo gli unici non-vietnamiti. "Ti piace il daino?" Mi chiede la nostra ospite. Mi si affaccia l'immagine di me che mastico penosamente una pelle di daino, una di quelle usate per pulire le auto. "Non l'ho mai provato, ma mi piacerebbe tanto!" Un daino in fondo è il meno peggio che potessi aspettarmi, deve sapere un po' di cervo, mi son detto.
Intanto sfoglio il menù, che è diviso in sezioni. Ogni sezione reca il disegno dell'animale in questione. Daino, il primo foglio. Rana, il secondo. Coniglio, il terzo. Papera o anatra il quarto. Gli animaletti son tutti disegnati con un faccino sorridente e gli occhietti vispi. Seguono un serpente, un cane (eccolo!), un porcospino e, buon ultimo, un ratto. Sì, un ratto. Un bel topone da farsi alla griglia.
Chiediamo birra e viene depositata pesantemente di fianco al nostro tavolo una cassa di birra coperta di ghiaccio. Non una birra, una cassa intera, a cui attingere a volontà.
"Cavallo non ne avete?" Chiedo, ormai alla terza birra, rivolgendomi al cameriere. "Cavallo?" Mi risponde. Ricevo uno sguardo stralunato. Devo aver chiesto una cosa davvero strana...
Intanto un gruppo di cinque camerieri si sta indaffarando attorno al nostro tavolo, e Nakano, tutto sorrisi e inchini verso la ospite, le sta spiegando che questa sera siamo lì in suo onore e che può ordinare quello che vuole e quanto ne vuole. "Ah, sì, aggiungo io, più sei felice tu, più siam felici noi!" Non è una cena di lavoro, ma loro hanno lavorato assieme in questi giorni, quindi per Nakano è molto importante che tutto vada bene. E poi i prezzi son bassi. Viene piazzato un vaso di terracotta con dentro le braci accese sul nostro tavolo, ci vengono date le bacchette per cucinare e quelle per mangiare. La fanciulla, nella migliore tradizione vietnamita, non tocca alcool, ma beve un orripilante succo color rosso sintetico.
Brindiamo parecchie volte mentre posiamo sulla griglia i filetti delle varie carni che i camerieri depositano di volta in volta sul nostro tavolo. Cambiano le carni ma cambia anche il modo in cui sono state marinate, da naturale a speziato. Ogni tanto un cameriere arriva e gira la griglia, a mani nude. Uno dei nostri camerieri è nuovo e viene preso in giro dagli altri perché ha paura di scottarsi. Nakano afferra la griglia a mani nude e la solleva, incurante del dolore. Tipica dimostrazione di forza da macho giapponese. Peccato che sulla griglia ci abbia lasciato sicuramente anche un pezzo di mano, e così vien fuori che l'animale più strano assaggiato quella sera è stato il giapponese alla birra.
Da un capo all'altro del ristorante riecheggiano le urla dei vietnamiti ubriachi che festeggiano: "Hò! Hò! Hò!" si sente urlare in coro. Inneggiano ad Hò Chi Minh e tracannano.
La chicca finale sono state delle uova di quaglia o di qualche altro volatile abbastanza piccolo. Si prende l'uovo, che è reso molliccio dalla cottura al vapore, afferrandolo con un ciuffo di foglie verdi, dal profumo di sapone per piatti al limone, si sbuccia e si mangia il tutto. Peccato che dentro il guscio l'uovo non sia ad uno stadio normale, ma ci sia l'embrione del pulcino già formato, tutto nero. Ho gentilmente declinato l'invito ad assaggiare queste uova, senza mostrare assolutamente il profondo schifo che mi suscitavano. Mi hanno beccato lo stesso. Nakano ha riso e ne ha mangiate sei. Poi mi ha confessato che però l'erba al limone proprio non gli piaceva.
"Beh, ti capisco..." gli ho detto, con fare ovvio.
La conversazione di fine pasto ci ha visto decantare le lodi del locale e delle carni assaggiate (davvero buone, non scherzo) e mentre dicevo cerimoniosamente alla fanciulla che ero sinceramente felice per l'invito e la serata speciale costei, tutta carina e impassibile nel suo tailleur color avorio, ha schiodato un rutto di almeno quindici secondi. Ho avuto uno sbandamento interiore per evitare di scoppiarle a ridere in faccia (anche io avevo attinto con piacere alla cassa di birre) e mi si sono riempiti gli occhi di lacrime, diventando tutto rosso.
Ho abbassato la faccia, in un tentativo disperato di non ridere, tenendo lo sguardo sul tovagliolo posato sul mio grembo. Quando ho rialzato gli occhi la ragazza stava candidamente aspettando che io finissi il mio discorso, non capendo cosa mi avesse distratto.
"Ecco..., è stato davvero speciale, non credevo." - "Sono felice" mi ha risposto lei con dolcezza, ignara della mia crisi di ilarità interna.
"Uh, anche io, anche io!", ho detto.

DAG

martedì 20 maggio 2008

63_Spontanei ma impenetrabili.

Adesso che ho arrestato per un po' il mio continuo movimento da un posto all'altro e che mi sono fermato qui a Saigòn ho modo di osservare alcune cose a fondo, in particolare quello che mi interessa maggiormente, ovvero lo svolgersi della vita quotidiana e il tessuto che la regola: le relazioni sociali.
Innanzitutto devo ammettere che non mi è chiaro come mai il Vietnam, in particolare Ho Chi Minh City (Saigòn), sia un posto in cui mi trovo tanto bene. Forse è la vitalità che anima la gente e le strade. Forse è il modo che hanno i vietnamiti di essere schietti e diretti. Ogni giorno assisto a qualche episodio (o ne faccio parte) che mi fa capire qualche cosa di più su questa popolazione e che mi stupisce. La mancanza di machismo (che non vuol dire che non ci sia discriminazione tra maschi e femmine) qui è diffusa come negli altri stati del sud est asiatico, ma tutti, sia maschi che femmine, sono un po' più rustici, meno cerimoniosi che nelle altre nazioni del circondario. E lo sanno. Uno dei due vecchietti con cui l'altro giorno ho avuto la fortuna di conversare mi ha detto: "Noi qui siamo pratici, i laotiani invece sono delle persone molto dolci". Ed è vero, ma questo aggettivo mi ha colpito, non mi aspettavo che venisse usato anche qui, da un vecchio vietnamita, specie se riferito ad un altro popolo. E' una cosa che può dire una qualsiasi ragazza che estasiata torna in America dopo un viaggio in Asia: "Oh, i laotiani... sono così dolci!"
Non so, dicevo, cosa mi piaccia di preciso del Vietnam. Sicuramente uno spiraglio di possibilità di lavorare me lo rende molto, molto interessante. Ma credo che l'aspetto speciale siano davvero le relazioni fra gli individui. Ho avuto modo, durante questo mio viaggio, di parlare con tanti viaggiatori che avevano pessimi ricordi del Vietnam e dei vietnamiti. Causa dell'attaccamento esasperato ai soldi e dal continuo martellare dei venditori. Non dico che non sia così e qualche fregatura me la sono presa anche io, ma dopo un po' si impara a trattare e ci si fa lo scudo.
Mai mangiare o bere qualcosa o accettare un passaggio (sia in moto che in taxi) senza aver prima contrattato la cifra. Pagherete tutto almeno il doppio. E litigare con i vietnamiti è sconsigliabile, come insegnano un po' di nazioni occidentali.
Stamattina però, a smentire la rusticità di alcuni vietnamiti, mi è successo un fatto curioso. Sono entrato in un bar, un bar a me nuovo, visto che qui ce ne sono tanti e ho deciso di provare tutti quelli che mi attirano; volevo prendere un caffè, un semplicissimo caffè vietnamita, di quelli col filtro sulla tazzina, che cola piano piano, forte e bollente. Sembrava che avessero solo caffè con ghiaccio. Non riuscivo a farmi capire. Un signore al tavolo affianco si è preso a cuore la mia situazione e, messo da parte il giornale che stava leggendo, ha telefonato a qualcuno con il suo cellulare. Poi mi ha appoggiato il telefono all'orecchio e una voce femminile mi ha chiesto, in anglo-vietnamita: "Cosa vuoi?" - "Un caffè, ma caldo, non col ghiaccio, per favore" ho risposto subito. "Ok, ok" ha detto la vocina di donna dall'altra parte. Ho ridato il telefono al mio vicino di tavolo che si è messo a parlare in modo concitato per dare ordini alla padrona del bar.
Ci siamo guardati tutti e tre in faccia, mentre ringraziavo tutti e ci siamo messi a ridere. La situazione è stata risolta in un modo anomalo e buffo, ma anche molto semplice e diretto. Tra l'altro il caffè che mi è arrivato era molto buono, proprio come lo volevo io.
I vietnamiti mi sembrano un popolo molto candido. Lo stile di vita qui implica molte responsabilità da parte di ognuno, sia grande che bambino. Mi spiego meglio, con alcuni esempi. In caso di incidente stradale chi sbaglia paga e l'assicurazione è obbligatoria, ma le regole del traffico sono perennemente trasgredite, vale la strada più breve e veloce, che sia tagliando curve, contromano o schivando gli altri motorini spesso per meno di un millimetro. La trasgressione è comunemente accettata e nessuno si scandalizza se, per esempio, andiamo contromano. Semplicemente tutti suonano il clacson per avvisarci che stanno arrivando. Possiamo trasportare carichi sporgenti, ma se causiamo un incidente siamo noi a pagare. L'altro giorno un signore ha caricato un frigorifero sul motorino ed è partito come se si trattasse della cosa più normale del mondo. Un frigorifero! Vi immaginate cosa succede se cade addosso a qualche anziana donna che va, chessò io, in bici?
I bambini imparano sin da piccoli che possono giocare per strada, ma che può essere pericoloso. Non sono così tutelati come da noi. Mi sembrano tutti molto più svegli.
No, scusate.
Lo sono.
La libertà personale è, nelle piccole cose quotidiane, molto più alta che negli stati occidentali. Vogliamo far da mangiare e venderlo per strada? Possiamo farlo, non occorre nessuna licenza. La gente deciderà il nostro successo o il nostro fallimento. Ecco perché è raro trovare cibo avariato, non per una questione di responsabilità legale, ma perché non rende. Penso a tutte le autorizzazioni necessarie nel mondo "civile". A chi rendono? Allungano una strada che potrebbe essere più semplice e fornire un regime di concorrenza vera, tutto a vantaggio del consumatore. Qui, l'ho già detto, si cena con meno di un dollaro.
I marciapiedi e i locali vietnamiti, quando non sono lasciati a cemento grezzo o asfalto, sono piastrellati con ceramiche lucide, che diventano scivolosissime quando il pavimento è bagnato. Ora, a Saigon, o qui o là, c'è sempre un po' d'acqua per terra. Semplicemente stai attento e cerchi di non cadere. Penso agli Stati Uniti che devono tenere sempre in bella vista l'orrendo segnale giallo "Attenzione, pavimento bagnato" (adesso anche in due lingue, inglese e ispanico) altrimenti qualcuno potrebbe cadere e far causa al locale. Attenzione, non farsi male, ma far causa al locale. Cari americani, avete dato agli avvocati il potere di fare il bello e il cattivo tempo con le leggi e di piegare le regole a favore dei privati per far soldi intentando cause artificiose contro chicchessia? E adesso vi beccate i cartelli gialli che deturpano l'estetica del vostro locale. C.Y.A. law, le chiama Warren, queste leggi (Cover Your Ass Law). Fatte apparentemente per proteggere i cittadini, in realtà per pararsi il culo dalle cause legali, come l'avviso che il fumo fa male sui pacchetti di sigarette.
Il tragico è che stiamo imboccando anche noi la stessa strada. La strada su cui il terrorismo attecchisce meglio.
Ma non voglio fare polemica qui e adesso, non c'entra molto e poi sarebbe un discorso molto lungo.
Un altro aspetto che caratterizza le relazioni sociali e le differenzia da quello a cui siamo abituati noi è l'imperscrutabilità dei volti.
Immaginiamo un ingorgo nel traffico di Milano: facce distorte dagli insulti sottovetro, mani che pestano sui clacson, occhiatacce, alzar di voci, magari gestacci, guance accaldate e paonazze dall'ira.
Qui no. Qui, dove l'ingorgo è perenne e mostruoso, suonano tutti il clacson, ma non si riesce mai a capire chi è stato, perché la faccia non cambia. Agli incroci o alle rotonde tagliare la strada al vicino è la regola, meglio se riusciamo anche a stringerlo contro il marciapiede o contro un camion che sopraggiunge da un'altra direzione. Il malcapitato o la malcapitata (non c'è galanteria nel traffico di Saigòn) sarà costretto a frenare bruscamente, ma senza tradire emozione alcuna. Scendere dal marciapiede col motore acceso e buttarsi a casaccio nel flusso degli altri motorini causando uno sbandamento generale e parecchie inchiodate è considerato normale, meglio se fatto senza guardare. Nel traffico bisogna schivare gli altri, le buche per terra, cercare di passare davanti infilandosi nel minimo spiraglio disponibile. Chiaro che il semaforo rosso diventa un'opzione da considerare solo di rado. Ogni tanto qualcuno ci viene addosso, Phùc ed io (Phùc è il mio driver ufficiale e traduttore qui a Saigòn, uno studente di buona famiglia che mi accompagna agli appuntamenti di lavoro, mi fa da interprete e mi consiglia su come muovermi con i businessman vietnamiti e con i vietnamiti in genere) veniamo scossi da un urtone. Qualcuno ci è appena venuto addosso. A meno di non avere danni, nessuno fa una piega. Nel senso che si continua nel traffico come se niente fosse. La velocità generale, c'è da dirlo, è molto molto bassa.
Sembrano imperturbabili, eppure notano tutto. Nessuno incontra gli occhi degli altri, ma tutti si tengono sott'occhio. I venditori per strada ci chiamano in continuazione per proporci chi un passaggio in moto, chi di lustrarci le scarpe, chi di comprare lo zippo appartenuto al soldato americano (ma quanti zippo aveva ogni soldato!?!? I venditori di zippo sono migliaia! Saran mica falsi!?) chi di farci fare un massaggio in qualche centro di lussuria oppure ci vuol vendere marijuana o oppio. La modalità del richiamo è varia: si passa dal classico "Hey, mister!" al più rustico "Ué!" al batter di mani. Alcuni addirittura mandano un bacino. Sì, un bacino verso di noi, "Smack!". Se noi li guardiamo negli occhi e diciamo "No, grazie" per loro è come se avessimo detto sì, perché abbiamo incrociato il loro sguardo, quindi vengono lì e insistono. A quel punto molti turisti si esasperano e diventano bruschi o offensivi. Se noi invece, senza guardarli né minimamente girare la testa o fare un movimento in più, appena sentiamo il richiamo al nostro indirizzo agitiamo leggermente la mano e facciamo un battito di palpebre, gli abbiamo detto di no in modo molto più efficace e non offensivo.
L'altro giorno ero con Phùc in libreria, a consultare alcune riviste di arredamento e a farmi indicare le case editrici. Ad un certo punto mi dice: "Guarda, ti sei comprato i pantaloni e la camicia eleganti, per fare il tuo business, ma tutti notano le tue scarpe. Non va bene che tu abbia le ciabatte, non è perfetto. Ci vogliono le scarpe giuste." - "Ma Phùc, tutti vanno in giro in ciabatte! E poi io non ho visto nessuno che mi guardava i piedi!" - "Se vuoi essere perfetto agli appuntamenti devi avere le scarpe chiuse, non le flìp - flàp." Mi ha detto senza scomporsi. "E poi tu non vedi gli sguardi della gente perché non sei di qui, ma ti notano tutti".
Urca.
Mi son sentito con le braghe calate.
"Phùc, non ho voglia di spendere altri soldi anche per le scarpe, e poi non ho più spazio in valigia." - "Non hai un paio di scarpe chiuse?" mi dice sempre senza mutare espressione e guardando in basso, verso uno scaffale "Sì, ma sono scarpe da ginnastica!" - "Va bene, metti quelle" - "Ma Phùc, sono GIALLE!!!" - Sempre rivolto allo scaffale, ha chiuso gli occhi per un secondo, come per avvisarmi della sentenza finale, poi ha detto: "Giallo va bene". E ha concluso il discorso.
Giallo va bene.

DAG

domenica 18 maggio 2008

I due vecchietti.

Il mio amico Lupo tanti anni fa mi raccontò un aneddoto. Era alla facoltà di agraria e stava preparando l'esame di entomologia quando, con alcuni amici, decise di fare uno scherzo. L'aula delle esercitazioni di entomologia è piena di armadi, ognuno con un centinaio di cassetti in legno, ciascuno dei quali raccoglie un'infinità di insetti, morti e perfettamente conservati. Per esercitarsi lo studente deve (credo che la cosa funzioni ancora nello stesso modo) imparare a riconoscere il maggior numero di insetti possibile e saperne citare almeno il nome nella classificazione linneiana, quella che raccoglie i nomi scientifici degli esseri viventi.
Ora, gli insetti contenuti nell'aula erano qualche centinaio di migliaia. Loro presero un insetto vivo (un coleottero, credo) e lo puntarono con lo spillo al posto di quello morto. Il povero coleottero ogni tanto agitava le ali, emettendo un ronzìo. Il sospirone spaventato di una studentessa gli fece capire che lo scherzo era pienamente riuscito: il terrore nella ragazza era stato suscitato non dal fatto di vedere un insetto vivo che agitava le ali, ma dalla logica conclusione che tutti gli insetti della stanza fossero vivi.
Oggi ho provato una cosa simile, anche se , per fortuna, l'ho provata in positivo, senza alcun allarme o terrore.
Stavo trottando per una via di Saigon molto, molto lunga alla ricerca di uno stampatore che mi era stato indicato da un fotografo locale quando il cielo si è fatto sempre più scuro, da nuvolo a grigio a nero, letteralmente nero e minaccioso, bassissimo. Siamo nella stagione delle piogge quindi è normale che una volta al giorno venga giù una sgravanata d'acqua che in pochi secondi lava tutto e tutti, senza alcuna pietà. Per fortuna la pioggia è calda, quindi c'è solo il disagio di essere bagnati e di dover proteggere eventuali libri o apparecchi elettronici, per il resto non è un gran problema. Di solito mi rifugio sotto la prima tettoia e aspetto che passi il grosso. Oggi non passava mai, le secchiate d'acqua (perché qui piove a secchiate) erano continue e costanti. Cuore in pace, me ne sto a guardare gli inarrestabili motociclisti di Saigon che estraggono gli impermeabili trasparenti, si coprono e continuano la loro corsa nel traffico, a colpi di clacson.
Che carini, pensavo...
Sono sotto la tenda di un barettino, e stavo aspettando che la pioggia rallentasse almeno un pochino, quando si ferma di fronte a me un motorino con su due vecchietti. Il passeggero, capelli e baffi bianchi, ha una faccia davvero simpatica e tiena in mano una bottiglia di rhum vietnamita. Il suo compare, il guidatore, ha i capelli tinti ed è vistosamente strabico. Danno qualche ordine alla ragazza che serve ai tavolini del bar (due in tutto) e mi invitano, in francese, a sedermi con loro. Io ringrazio e dopo aver constatato che la pioggia non accenna a smettere accetto, sedendomi e presentandomi. La ragazza porta tre bicchieri pieni di ghiaccio e tre bicchieri di tè, con ghiaccio anche quelli. Uno dei due vecchietti mi parla in francese (davvero un buon francese) e mi chiede le solite cose che si chiedono ai turisti, inclusa la solita, fatale domanda: "Ti piace il calcio?" - "No, sinceramente no", rispondo io. "Ah! E come mai? E' strano!" - "Sì, lo so, ma non mi piace perché nel calcio ci sono troppi soldi e troppa violenza" - "Ah, capisco... e ti dò ragione" mi dice il simpatico. Quell'altro, lo strabico, silenzioso in un primo momento, rivolge con un occhio a me e un occhio al suo motorino l'invito ad assaggiare con loro il fantastico - a sentir lui - rhum che hanno portato, che è di una nota marca vietnamita, e costa meno di un dollaro. "Questo" mi dice indicando la bottiglia e agitandola con vigore, "Non è un rhum fatto in economia, è di qualità! E' fatto con la canna da zucchero!" Mi chiedo quindi quanto possa costare un rhum economico e soprattutto con cosa lo possano fare se non con la canna da zucchero. Mi spiega che qui in Asia del sud hanno tanta canna da zucchero e quindi alcune aziende statali hanno deciso di produrre il rhum da sé, avendo imparato come si fa a Cuba e senza bisogno di importarlo. In effetti è vero.
"Questo governo è socialista, quindi ha simpatia per Cuba e Fidel Castro, e molte idee sono messe in comune, alcune anche divertenti, come il rhum, che può diventare un patrimonio culturale anche nostro". Mi colpisce sentire i nomi di Cuba e Fidel così diffusi in Asia, che sta dall'altra parte del mondo, ma abbiamo visto che stiamo su un pianeta grande quanto una pallina da golf, quindi è comprensibile.
Ci mettiamo a parlare del Vietnam, buona parte della conversazione è tenuta dal vecchietto strabico, che ha lavorato per anni con i francesi. L'altro beve e fa di sì con la testa, gli occhi a fessura in un perenne sorriso.
"Noi qui in Vietnam siamo pacifisti, è che ci hanno sempre costretto a fare la guerra, quindi siamo diventati bravi soldati, ma quello che ci aiuta è la testa", e si picchietta la fronte con l'indice. "Prendi la Cina. Per mille anni hanno provato ad invaderci e adesso apparentemente non c'è la guerra. Ma avere la Cina al di là del confine è come avere un amico troppo grosso e prepotente. Non c'è la guerra con le armi, ma ci sono tante manovre economiche, che poi sono le stesse che stanno dietro alle guerre". Colpito da tanta lucidità di ragionamento, lo lascio andare avanti, facendo anche io cenno di sì con la testa. "E ad un certo punto succederà qualcosa, anche se ci comportiamo da amici con la Cina, un po' come successe a Mussolini con Hitler. Mussolini pensava di diventare fortissimo alleandosi con Hitler, ma era Hitler che si è servito di Mussolini, questo gli italiani lo hanno capito e molti sono diventati partigiani e sono scappati sulle montagne per combattere i fascisti. E alla fine proteggevano gli ebrei, perché avevano capito che Hitler era davvero troppo pazzo!" E si picchietta ancora la fronte, nello stesso modo di prima.
"Ma tu guarda" - mi dico - "quante cose sa quest'uomo sulla storia moderna europea". Eppure è un commerciante che ha smesso di lavorare per raggiunta anzianità... E continua sorprendendomi sempre di più: "Adesso la Cina è diventata molto forte, ma è successo troppo in fretta. E tutto il mondo, che non è stupido, ha capito che da qualche parte c'è un trucco. E sai qual è l'inganno?" continua il vecchietto strabico, in un francese pieno di smorfie e occhi sgranati (il rhum in questo gli dà una mano) "La qualità!".
Ascolto sbalordito.
Sono gli stessi discorsi che sento fare dalle persone che in Italia hanno ben chiaro il quadro della situazione e che ascolto sempre con molta attenzione, perché è un tema che mi interessa.
"Adesso il vero obiettivo del Vietnam sarà avere la stabilità economica per poter comprare la qualità europea!"
L'altro vecchietto, intanto, quello simpatico, si mette a canticchiare una canzone, rendendo difficile per me capire chiaramente le parole dello strabico. Pioggia scrosciante, motorini e clacson già mi facevano stare con le orecchie tese al massimo per cogliere ogni parola del discorso dello strabico, adesso ci mancava pure la canzoncina del vecchietto vicino.
Non mi curo tanto del tempo che passa, a chiedere i prezzi dallo stampatore ci andrò domani, adesso mi piace star qui con questi due personaggi assolutamente unici, a sentire una vera lezione di storia europea moderna e contemporanea.
"Noi adesso non possiamo pensare tanto alla guerra, la guerra fa parte del passato. Dobbiamo pensare al futuro, e dobbiamo farlo seriamente. La politica vietnamita sta cambiando, il governo si sta aprendo sempre di più, ma dobbiamo stare attenti, per non passare dal socialismo al capitalismo estremo. L'educazione dei ragazzi è la cosa più importante, e anche la salute pubblica. E per fare questo i nostri dirigenti hanno bisogno di tutelare il passaggio verso il capitalismo mantenendo i valori del popolo, non come voi (e qui mi ha chiesto scusa) che avete messo Coccinella al parlamento." - "Chi???" Chiedo io, non sicuro di aver capito bene. "Coccinella, la bionda con i grossi seni di fuori!"
Coccinella è Cicciolina, non so se si stesse sbagliando il vecchietto o se qui l'abbiano chiamata così.
"Ah, ma quella è stata una delle pagine meno serie della politica italiana... una provocazione!"
Dico io, cercando di sdrammatizzare ma, in effetti, un po' a corto di parole in proposito.
"E adesso?" Incalza lo strabico, "Tutto il mondo critica la Cina perché non c'è libertà di espressione, e voi al governo avete quello là, che possiede anche le vostre televisioni..." mi mordicchio un labbro, intanto il vecchietto continua il suo monologo: "Pensiamo che internet sia una fonte di informazione libera, che permetta di comunicare senza essere troppo controllati, ma stiamo dando ancora tutto in mano ai cinesi, senza voler aprire i nostri occhi." Lo guardo senza capire. Lui se ne accorge e continua: "Sì, Yang Ho... lo sai chi è?" - "No", dico io. "Perché non vuoi aprire i tuoi occhi! Yang Ho...Yahoo! E' un cinese, il fondatore di Yahoo."
Sono assolutamente esterrefatto dalle cose che mi dice quest'uomo. Voglio credere che siano tutte vere, al momento. (Arrivato a casa ho controllato su internet. E' vero). Mi guardo intorno, i miei occhi spaziano sulle centinaia e centinaia di caschi multicolori che affollano perennemente l'incrocio antistante il bar. "E se fossero tutti così?" Mi chiedo. "E se questo popolo, fatto da milioni di persone che io ho sempre visto come un popolo-formicaio, ammirandoli per la loro laboriosità e la loro capacità di adattamento ma anche guardando a loro come una miriade di personaggi tanto carini, minuti, svelti nei movimenti, fosse fatto di qualche milione di cervelli come questo qui?
Metto a fuoco la mia attenzione sulla canzoncina del vecchietto simpatico. Mi rendo conto che sta cantando in italiano: "Sei grande grande grande come te, sei grande solamente tuuuuuu...!" - "Ma è Mina!" gli dico. "Eh oui! J'aime bien Mina!" Altro scrollone al mio quadro del vietnamita-tipo.
E se tutti questi individui, che non mutano mai espressione e si tengono tutte le emozioni dentro, ma che sono perfettamente in grado di leggere ogni nostra espressione e di interpretarla nel modo corretto, non fossero semplicemente "degli omini tanto carini" ma un esercito di uomini e donne preparati, istruiti e pronti ad assorbire quanto arriva da fuori e farlo loro?
Come se tutti gli insetti intorno a me fossero vivi, sensazione di essere circondato e mi sento io, adesso, tanto piccino.
Ho provato un momento di vertigine, all'idea che tutti intorno a me sapessero tutto, o tanto più di quel che so io sulla storia della mia parte di mondo, oltre che della loro.
E' stata una bella lezione di umiltà, anche.
Per fortuna i due vecchietti erano davvero saggi e animati da una sincera voglia di fare due chiacchiere, senza esibizionismi o voglia di polemiche. Hanno ordinato un piattino di salumi affumicati e verdure tagliate sottili, che abbiamo mangiato pian piano, mentre un bicchiere di rhum seguiva l'altro. Un po' di ghiaccio, due chiacchiere, un sorso, una fettina di prosciutto d'oca affumicato, uno sguardo alla pioggia...
Abbiamo fatto secca la bozza di rhum, quando ci siamo salutati il vecchietto strabico mi ha voluto dare il suo indirizzo email, poi ha aggiunto: "Pioggia fortunata oggi, il brutto tempo ci ha fatto incontrare, e io sono molto felice di questo".
E l'altro, il simpatico, sempre più sorridente e con gli occhietti sempre più a fessura: "Gli piace tanto parlare, ha l'animo politico... io ti dico solo questo: la vita è meravigliosa".
E' vero.

DAG

giovedì 15 maggio 2008

Al lavoro!

A Saigon, come a Bangkok, penso che potrei tranquillamente vivere.
Sono città grosse, incasinate, ma sono tutto sommato semplici. Innanzitutto fa caldo, e quando fa caldo a me sembra tutto più facile. Non ci si deve preoccupare di come vestirsi per uscire, soprattutto non è traumatico uscire. Poi sono città abbastanza sicure, tutto sommato. Sì, tempo fa c'era stato il problema dei finti tassisti a Bangkok, che rapivano i turisti per derubarli e poi li facevano sparire, e a Saigon c'è la mafia di Saigon, che però si fa gli affari suoi.
Il mio programma è quello di stare a Saigon per una ventina di giorni, con lo scopo di lavorare: se non direttamente, di creare contatti per lavorare con le case editrici di Saigon dall'Italia. Mi sono attrezzato quindi in questo modo: ho affittato una camera in un albergo della zona turistica (Pham Ngu Lao, sì, sono tornato afFangulào) e sono riuscito ad abbassare il prezzo da sei a quattro dollari al giorno. La stanza è al sesto piano e non c'è ascensore, ma ho un letto, un tavolino e il bagno in camera. Niente condizionatore, non mi serve. Il piano alto, come prevedevo, mi ha dato l'accesso a numerose reti internet a cui accedere via etere, quindi sono sempre online, anche se la connessione è lenta. Se a questo aggiungete che ho una grande parete vetrata che dà sulle casette del quartiere vecchio, mi sento praticamente a Manhattan!
Mi sono preparato per ogni eventualità: ho comprato un casco, obbligatorio in Vietnam per andare in motorino, mi sono fatto i biglietti da visita semplici semplici (Mr. DAG, photographer) e ho preso anche un telefonino con scheda vietnamita. Per comprare il telefonino ho impiegato una mattinata, perché qui in Asia, non solo in Vietnam, le regole della concorrenza sono diverse che da noi: esistono vie interamente tematiche, ovvero in cui si può trovare una sola categoria merceologica. C'è la via delle scarpe, la via dei motorini, la via dei meccanici, la via dei quadri (tutti uguali, fatti in serie) e la via dei telefonini. C'è, anche, purtroppo, la via dei ristoranti in cui si mangia il cane, con tutti i cani appesi. No, non ci sono stato e non ci voglio neppure andare, mi hanno detto che è un mio limite culturale. Va bene, penso che con alcuni limiti si possa anche convivere.
Andiamo a comprare qualcosa, qualcosa che non sia cibo o una bottiglia d'acqua, qualcosa che impegni leggermente le nostre finanze.
La cosa divertente, nel momento in cui vogliamo fare acquisti, è che dobbiamo trovare il prezzo più basso e da lì partire per contrattare. Quindi prima si girano tutti i negozi (e di solito sono tanti e uno attaccato all'altro) e si tiene a mente il più conveniente, poi si va dal finalista per la battaglia. La differenza di prezzo da un negozio all'altro può essere anche di un terzo del totale, quindi è un aspetto da considerare. Subito il commerciante ci si avvicina, ha fiutato il cliente e ha già la bava alla bocca, anche perché il cliente è occidentale, quindi secondo lui è, per forza, pieno di soldi.
"Cosa vuoi comprare?" Chiede, di solito, in modo diretto. "Un telefonino" - "Ah, ne abbiamo molti!" - "Eh, vedo...quanto costa quello?" Il commerciante ci pensa un po' su, poi ci comunica il prezzo. E la regola è, di fronte al prezzo, fare la faccia stupita e scandalizzata, prendere e girare i tacchi - le ciabatte, pardòn - e fare per uscire dal negozio o abbandonare la bancarella. Il commerciante a questo punto ci ferma, brancandoci per un braccio e ci chiede: "Ok, quanto lo vuoi pagare?" E ci porge la calcolatrice.
Calcolatrice alla mano, scriviamo un numero, da che si capisce se la contrattazione sarà in dollari o in dòng, la moneta locale. Adesso è il suo turno, legge la cifra che abbiamo digitato, spalanca gli occhi e spegne ostentatamente la calcolatrice e, con gesto teatrale, la poggia sul bancone, facendo cenno di essere impegnato. E via così, a far finta di scandalizzarsi a vicenda finché di solito (ma io sono diventato particolarmente forte) ottengo la merce al prezzo voluto.
Il telefonino che ho comperato è un Cinokia.
Ovvero un finto Nokia, fatto in Cina, molto più economico dei Nokia base, ma con tutte le funzioni di un telefonino normale. Quando si accende il logo e la musichetta sono simili ai Nokia, ma non sono quelli. Geniali, questi Cinesi. In alcuni casi ho sentito commercianti che di fronte alla mia obiezione: "Ma non è un Nokia vero, è cinese!" hanno detto: "Certo, noi non teniamo i Nokia che costano tanto, ma solo questi, per farti spendere meno!" Come a dire che da loro il cliente è proprio coccolato, vàh! Il mio telefonino ha anche un anno di garanzia, solo che la garanzia è rappresentata da un adesivo di carta sul fianco del telefono. Se si rompe o si stacca, addio garanzia. E l'adesivo è davvero fragile...
Chissà come sono contenti alla Nokia, vero Giorgio?
Comunque mi fa piacere avere già una mini rubrica di numeri di telefono tutti vietnamiti, tutti assurdi. La rubrica è fatta così: Hthièn, Làn, Lo'an, Phàm, Phùk e T'aung (sì, ho ritrovato la mia amica, una sera. Stava giocando a bigliardo al solito locale. In pigiama... (era quella che mi sgridava perché non mi vestivo bene). Le telefonate sono di solito abbastanza lunghe, metà del tempo viene passato a ripetere le frasi perché farmi capire dall'interlocutore e l'altra metà a chiedere "EEEHHH??.." perché anche io ho difficoltà a capire la persona dall'altro capo, per via dell'idioma in cui ci esprimiamo entrambi, che non mi sento di chiamare inglese. Tarzan aveva, quando lo ritrovarono nella giungla, una proprietà di linguaggio più articolata.
La mia giornata è organizzata in questo modo: La mattina mi sveglio di solito verso le sei e mezza, per la luce che entra dalla vetrata ma anche perché la sera vado a letto presto, quindi ho dormito abbastanza, cincischio un po' in stanza, poi vado a mangiare. Mai colazione dolce, di solito riso o noodles, per strada se mi ispira, altrimenti ho due o tre posti favoriti ed economici, ma sempre per vietnamiti. La mia divisa della mattina è quella da ufficio, camicia bianca e pantaloni neri con la riga, comperati al mercato e fatti mettere a misura da una sarta locale: elegante molto più che in Italia. Questo per due motivi: primo così vestito il mio interlocutore, sia negoziante o altro, capisce che non sono un turista ma sono lì per lavoro, quindi parte con un atteggiamento diverso. Secondo divento invisibile ai richiami ed alle insistenze continue dei motociclisti che offrono passaggi in moto o dei xiclò che mi vogliono portare a fare i "massà", i massaggi.
La ciabatta però rimane una costante, anche vestito come un damerino. La mattina di solito sono in giro, vado a vedere i negozi di libri, a studiarmi le riviste, dallo stampatore oppure a comprare le cose che mi servono, che come abbiamo visto porta via tempo ed energie.
Ad un certo punto della mattinata mi prendo un caffè, ed il caffè vietnamita è un'altra cosa speciale: viene filtrato lentamente da una tazzina di alluminio coi forellini, è fortissimo e viene servito con una caraffa di acqua bollente per allungarlo. Davvero buono. -Sì, socia, te l'ho preso!- Poi vado nuovamente a mangiare, perché s'è fatta la una e il pomeriggio lo passo in stanza a lavorare le immagini fatte in questi mesi a computer, oppure a scrivere. Magari ci scappa un pisolo. Di sera, verso le sette, smetto di lavorare, intontito e accaldato, mi faccio una doccia (fredda, ma tanto qui è tutto caldo) mi vesto comodo e scendo per andare a mangiare. Di solito la sera preferisco una zuppa, per stare leggero, magari da Phò Bò, il cinese dalla figlia tonta. Dopo cena passeggio per le vie qui intorno, schivando i motorini e rimandando sorrisi alle "bamidulìn".
Le bamidulìn sono le ragazze che stanno fuori dai locali ad aspettare i clienti, e quando passa un maschio da solo lo chiamano sorridenti, chiedendogli di offrire loro un drink. "Buy-me-a-drink", bamidulìn nell'inglese locale. Ormai le mie serate non sono più solitarie, conosco un po' di gente con cui gioco a bigliardo oppure vado a farmi una birra coi vietnamiti da qualche parte. Tanto, con il mio casco nuovo di pacca, sono indipendente!

DAG

lunedì 12 maggio 2008

Baozi.

Di nuovo in Vietnam, dunque, di nuovo a scendere da nord a sud lungo questa striscia di terra abitata da persone che hanno differente temperamento, più morbido e sorridente man mano che si va verso sud. Rivedo posti visitati in febbraio, li rivedo con piacere, un piacere aumentato dal fatto di sapere dove andare per trovare le cose migliori.
Incontro nuovamente personaggi con cui avevo parlato tre mesi fa, scoprendo con piacere che tutti, nessuno escluso, si ricordano di me e mi rivedono con piacere. A Hue il proprietario del Mandarin Café, Mr Cu, che è anche fotografo, con cui avevo condiviso lunghe chiacchiere sulla tecnica fotografica, sui ritratti, sul mestiere che ci accomuna, mi mostra i nuovi scatti degli ultimi mesi: "C'è stata la stagione del raccolto, è sempre bello fotografare il lavoro nei campi". Ha la macchina fotografica digitale e il computer con cui mettere a posto le fotografie. E' un benestante, ma lavora anche sodo, come quasi tutti i Vietnamiti.
Scopro anche di essere abitudinario, con il rischio di preferire un ristorante collaudato all'incertezza di qualcosa di nuovo, che però potrebbe rivelarsi anche meglio di quel che già conosco. C'è sempre qualcosa di meglio. Cerco di trovare una mediazione tra l'abitudine e il meglio, che però va cercato, con il rischio di incappare ogni tanto in qualche schifezza.
Come è successo oggi.
Da quando sono in Asia a fianco dei banchini delle zuppe vedo spesso una vetrinetta su ruote, alta quanto un uomo, che contiene alcune specie di pagnotte bianche. Queste pagnotte, grosse più o meno come un pugno, hanno l'aria poco appetitosa. Potrebbero anche essere delle vesciche di animale, per quanto ne so io. Ognuna di queste sembra una palla di pasta per la pizza non ancora cotta.
Il posto in cui vado a mangiare le migliori zuppe, qui a Saigon, è un garage gestito da un cinese. Il cinese in questione, grosso rispetto alla media dei cinesi, cura la propria estetica in modo cinese: random. E' calvo ma ha i capelli lunghi. Indossa pantaloni mimetici, che però non erano mimetici quando li aveva comprati. Non so se mi spiego. La canottiera nera è l'unico tocco apprezzabile nel suo stile: fosse stata bianca sarebbe stato molto, molto peggio. Ha peli sulle spalle e radi baffi che tiene lunghi davanti alla bocca, sbroffando in continuazione le figlie con cui parla mentre mangia la zuppa. Io mi sono inventato una storia molto strazzacòre a proposito di questa famigliola costituita da tre persone, un cane e due gatti. Non c'è una presenza femminile adulta, e si sente. Le due figlie, una dall'aria normale e l'altra dall'aria tonta, mandano avanti il locale che apre alle sei del mattino e chiude alle boh. Mi sono inventato che la mamma è venuta a mancare e che quest'uomo fa del suo meglio per portare a casa dei soldi, il fatto che parli sempre con le figlie e usi un tono di voce alto ma gentile me lo rende simpatico. E poi ha l'aria buona, povero. La sera arriva a casa, ovvero al garage-ristorante, con il motorino, ed entra direttamente fra i tavoli col motore acceso, incurante dei clienti. Va a parcheggiare il mezzo nel retro, dove dorme con le figlie. Poi porta fuori il cane. Portar fuori il cane significa per lui andare a sedersi su marciapiede di fronte col cane al guinzaglio e urlare al cane di fare la pipì. Il cane lo guarda e scodinzola felice, la lingua fuori. Lui cerca di dare una sberla al cane perché vede che il cane non gli obbedisce (ma va?). Il cane schiva tutte le sberle, è furbo. Il cinese dopo un po' si dà per vinto e rientra.
Hanno due tipi di zuppa: con manzo e senza. Quella con manzo è la specialità del posto. Quella senza è chiamata, nel menù, "Zuppa senza carne". Hanno il tè, ma solo freddo, col ghiaccio. Glielo chiedo caldo e la figlia tonta mi risponde: "No, caldo non lo facciamo". Mi chiedo come sia possibile. Forse sono molto molto avanti e fanno cucina molecolare, senza usare il fuoco, coma la mia amica Patrizia?
Il locale si chiama Pho Bò, "La zuppa di manzo". Il cinese dev'essere uno con le idee chiare, mi dico.
Di fianco alla postazione zuppe ha anche lui la misteriosa vetrinetta con le pagnotte dall'aria malata.
Un norvegese incontrato tempo fa in Lao mi disse che quelli sono i "dumplings" (li aveva chiamati così) e sono una specialità cinese. Una vera prelibatezza.
"Sono favolosi, provali, vedrai che ti piaceranno tantissimo! Da non credere!"
"Sì ma cosa contengono?" gli chiesi io "Aaahhh, dentro possono avere di tutto, a seconda dello stile del cuoco, decide lui! Sono sempre una sorpresa, pensa che bello!". "..Bello..." pensai io, già allora poco convinto. Lui continuò, avendo percepito i miei dubbi, tutto esaltato: "Ma no! E' proprio lì il bello, ci possono mettere dentro le verdure, la carne di pollo o di manzo, oppure anche il pesce o i gamberi! E con tutte le spezie e i sapori che non ti immagini! Poi uno solo è così nutriente che ti basta per colazione e pranzo", seguitò il norvegese, che però era magrissimo.
Bene.
Stamattina, ore undici, sono uscito dall'albergo, andando dritto dritto da Pho Bò, con l'appetito ed il buonumore di chi ha davanti a sé una luminosa giornata tutta da scoprire. Ad accogliermi lo sguardo spento della figlia dall'aria tonta, dietro le spesse lenti da ipermetrope, capelli crespi e perennemente in pigiama. Mi sono avvicinato alla vetrinetta dei Baozi (questo il loro nome cinese, me lo ha spiegato solo in seguito la mia amica Monica che lavora con la Cina) e ho guardato per la prima volta da vicino le pagnotte color trippa cruda che stavano sui vari ripiani. "Chissà quali sorprese di sapori, spezie, verdure, carni o altro devono contenere..." mi son detto, ormai lanciato verso l'esperimento.
"Come si chiamano?" scandisco bene la domanda alla povera ragazza, espressiva come un budino.
"Seimila" mi risponde, indicando il prezzo e rivelando che non sempre le apparenze ingannano (forse la madre è fuggita in preda alla disperazione, mi vien da pensare). Eppure un po' di inglese lo sa...
Passo sopra alla mia curiosità di sapere il nome dei misteriosi globi e riprendendo fiato chiedo, a voce alta: "Uò tìs sài?"
Chi crede che io abbia già imparato il vietnamita si sbaglia. Ho solo capito come azzoppare l'inglese per renderlo più comprensibile agli asiatici. ("What's inside?")
Contemporaneamente mi rendo conto che, anche se lei ha capito la domanda, io non potrò certo cogliere la risposta, che mi immagino essere un ricco elenco di suggestioni, aromi e fantasie orientali, dai nomi sconosciuti ed esotici, erbe e fragranze segrete e misteriose ed un concatenarsi di sapori e sensazioni che già, solo all'idea, mandano in deliquio il mio stomaco. La ragazza, in modo piatto e spento, mi sorprende rispondendomi con una sola parola.
"Frog".
Apro bocca ma non esce nessun suono. Cosa ha detto? Ho capito giusto? Eppure sì, a dispetto di tutto la risposta è stata pronunciata in modo inequivocabile.
Mi immagino, dentro la molliccia vescica color farina bagnata, di trovare il rospo che mi era finito nel cesso a Savannakhet, rospo che avevo liberato il giorno dopo visto che non era riuscito a mangiare neanche le due zanzare che avevo tramortito per lui e che gli avevo messo davanti. Era un po' tonto anche lui, povero.
Frog. Finalmente mi riprendo e ripeto: "Fròg?" facendo un saltino per rafforzare il concetto.
La ragazza, rovesciando la testa all'indietro, si mette a ridere facendo tremare la pappagorgia pallida, pallida come le vesciche piene di rane che vuol vendere ai passanti.
"Sì, frog, ma se vuoi queste contengono carne di maiale e l'uovo", mi dice indicando il ripiano di sotto.
Sollevato, decido di provarne una, sperando che nessuno abbia scambiato i ripiani o l'ordine, visto che le pagnotte sono tutte identiche fra loro.
Beh, con buona pace della rana, facevano schifo lo stesso.
Però che saziano è vero, non ho mangiato fino alle otto di sera!

DAG

Niente scosse

A quanto pare il destino sta giocando al lancio dei coltelli. Da una parte il ciclone in Myanmar che ammazza centomila persone, dall'altra il terremoto che in Cina scatena un putiferio tremendo.
Dicono che le scosse siano state avvertite addirittura a Bangkok, io oggi all'ora del terremoto ero per strada e non mi sono accorto di niente, ma neppure gli altri intorno a me. Si vede che solo ai piani alti si è sentito lo scrollone.
Comunque son qui, in Vietnam. Nel sud del Vietnam, per chi non avesse seguito i post più recenti, qundi lontano dall'epicentro. E, facendo i debiti scongiuri, non c'è stata nessuna catastrofe naturale.
Ripeto, facendo i debiti scongiuri.

DAG

venerdì 9 maggio 2008

Lào Bào.

I posti di confine sono quasi sempre brutti. Bisognerebbe imparare a cancellare i primi e gli ultimi momenti che trascorriamo in un paese, soprattutto se entriamo o usciamo via terra, perché dalle esperienze che mi sono fatto posso dire che le persone che vivono vicino ai confini sono peggiori, con turisti e viandanti, di quelle che stanno all'interno del paese. C'è meno attaccamento ai luoghi, tutto sembra essere più provvisorio.
Da Luang Prabang mi muovo di gran carriera verso il Vietnam, ripercorrendo in autobus molti dei luoghi visitati con Jun. E' trascorso solo un mese, ma mi sembra di essere passato di qui molto, molto tempo fa.
Da Luang Prabang prendo il bus per Vientiane, che arriva in dodici ore. Folle corsa in tuc tuc da una stazione all'altra per prendere la coincidenza con il bus che parte dopo venti minuti, ma c'è posto, ho fatto telefonare da una stazione all'altra. Riesco a prendere il bus per Savannakhet, bus su cui passerò la nottata. Un'altra nottata in bus, l'ennesima. Arrivo a Savannakhet alle quattro e un quarto del mattino; anche se è ancora notte il clima diverso si fa sentire, fa più caldo, ci sono più zanzare, gli odori non sono più quelli della vegetazione umida del nord del Lao, ma quelli delle strade polverose dell'altipiano.
Cerco di dormire sdraiato su una panca della stazione dei bus, ma non c'è verso, zanzare e persone intorno mi tengono sveglio. Un tramestìo aumentato mi fa capire che stanno preparando il bus su cui dovrò fare l'ultimo pezzo di strada (sette ore) prima di arrivare a Lào Bào.
Il bus è il più scalcagnato della storia, mi fa pensare ai servizi sulle carrette del mare su cui, a migliaia, si imbarcano i profughi dei paesi più sfortunati. Solo che loro sono tristi, qui sembriamo tutti più allegri. Il pavimento del bus è costituito da assi di legno. Davanti, dove siedo io, il pavimento è in lamiera, e in molti punti si vede correre l'asfalto sottostante. Cado in una specie di dormiveglia con spezzoni di sogni sparsi.
Sono su un autobus ma c'è il mare mosso, ed ho un piede nell'acqua. L'acqua è fredda ma ho il piede lì e non lo posso muovere, non ricordo perché.
Ad un certo punto vengo svegliato da un suono stridente, acuto, che mi allarma. Pneumatici che frenano di colpo, a lungo, ma non c'è nessuna frenata in realtà. Ho i battiti accelerati e sono tutto sudato. Mi riprendo dal torpore, giro a fatica il collo semibloccato e vedo che nel bus ci sono due maiali, uno dei quali si è messo a grugnire così, apparentemente senza motivo, emettendo un acutissimo "SSSGGGGRRRRRUUUIIIIIIIIIIII'KK!" che, nel sonno, avevo scambiato per una frenata improvvisa.
Guardo le facce degli altri passeggeri: tutti impassibili. Mentre cerco di far tornare la circolazione nel piede che mi si era incastrato tra il sedile e lo zaino mi vien da ridere, penso ai mezzi pubblici a Milano, a portare un paio di suini sulla 73 in direzione Linate e vedere le facce della gente...
Il bus continua la sua corsa (anche se di corsa proprio non si può parlare) e viaggia attraverso la pianura; una distesa di risaie, campi di granturco e villaggi. Stiamo attraversando il Lao verso est, tirando dritto verso il confine, dove si trova il villaggio di Lào Bào che, mi dico, dev'essere un'altra chicca sperduta nella remota Asia incontaminata. Un ultimo villaggio incantato prima di tornare in Vietnam, ancora una volta polli e bambini e niente elettricità.
Mi immagino.
Nel corso delle numerosissime fermate il bus carica e scarica gente, bagagli, animali. In due occasioni salgono frotte di ragazzine che vendono il pollo arrostito e lo sticky rice. Il pollo, serrato tra due stecche di bambù legate assieme, è arrostito sulla brace al momento e lo sticky rice è uno dei prodotti più caratteristici del Lao: è un riso cotto, lasciato freddare, girato e ricotto al vapore. Ha la caratteristica di diventare compattissimo, formando un blocco unico che va spezzato a mano. Tutti, bambini e adulti, ne vanno ghiotti e quando è fatto bene è davvero buono, perché ha un sapore tostato e profuma di teak. Viene tenuto ben stretto in pugno, a pallina, e addentato ogni tanto. Un morso al pollo, un morso alla palla di riso. Ho proprio fame. Decido che è giunto il momento e mi lancio, del resto non mi sono mai sentito così in mezzo ai locali come qui in Lao e questo cibo non va contro le mie regole: è un cibo molto venduto, quindi ha molto ricambio ed è probabilmente fresco e viene cotto al momento sulle braci. Eventuali germi dovrebbero essere eliminati. Stessa cosa per quanto riguarda il riso, alimento consumato più che in abbondanza qui in Asia. Pago la ragazzina e mi ritrovo con la mia colazione in mano, l'acqua e il resto dei soldi, un po' impacciato perché non so da dove iniziare. Innanzitutto ho in mano quattro cose e ho solo due mani, devo capire come evitare le ossa del pollo e non posso appoggiare nulla da nessuna parte perché tutto è troppo sporco. La ragazzina mi guarda e mi allunga un sacchetto in cui mettere pollo e riso. La sua espressione non è mutata ma dentro di sé deve pensare: "Guarda quest'imbranato..."
Finita la sosta il bus fa per ripartire ma il motore si spegne. I tentativi del guidatore terminano quando una nuvola di fumo azzurrognolo invade il bus, facendo tossire tutti.
"E' il cambio" dico io in italiano, indicando la spranga rugginosa con cui l'autista ingrana le marce, apparentemente a casaccio ma sempre a fatica. "Aà", mi risponde lui, non so se in laotiano o in italiano, fatto sta che adesso tutti gli uomini presenti nel bus stanno parlando fra loro, scambiandosi opinioni e indicando il motore. Scendiamo tutti e uno, due, tre! ci mettiamo a spingere l'autobus. Che carini! Contiamo tutti fino a tre in laotiano e poi giù un bel ruzzone, per smuovere il dinosauro rugginoso. Dentro, i due maiali stanno facendo un concerto di grugniti acutissimi, ad incitare. Le donne, a bordo strada, ci guardano e ridono. No, MI guardano e ridono; alcune ne approfittano per fare pipì.
Non so come, il bus riparte. La meritata colazione si rivela buonissima, divoro tutto il pollo e il riso fino all'ultimo boccone.
La corsa termina nel solito piazzale polveroso, pieno di buche e circondato da baracche, con uno stormo di motorini che ci corre incontro e si ferma a pochi centimetri dalle fiancate del bus. L'autista mi fa ceno di scendere, seguendo tutti gli altri. Strano, non ho visto nessun villaggio! Infatti non c'è nessun villaggio.
Lào Bào non è in Lao.
E' in Vietnam, a est del confine. Ero venuto qui per godermi l'ultima esperienza nel villaggio laotiano, e mi ritrovo in un orrendo posto di confine, composto da una strada, enormi camion arrugginiti parcheggiati da chissà quando e cani randagi. Certo non voglio passare una nottata in questo posto, mi dico. Tanto vale passare il confine da subito, e mi metto a contrattare con un tipo in moto. Il confine è a tre chilometri e io ho solo 5000 kip, 40 centesimi. Accetterà i 40 centesimi, penso, gli dò una pacca sulla spalla e gli dico:"Go."
Ho anche una banconota da 20 dollari nascosta in tasca, tutta sudaticcia e macilenta, che mi sarebbe servita per mangiare un giorno e dormire una notte a Lào Bào. Non mi azzardo a mostrargliela, sarebbe la fine.
Per il resto, ho finito i soldi.
Arriviamo al confine e subito la rigida procedura dei militari vietnamiti si fa notare: mi controllano il passaporto ogni venti metri. L'ufficiale che mi deve mettere il timbro ha l'aria a dir poco scazzata: sdraiato nella sua poltrona dallo schienale tutto all'indietro, al posto di consegnare i passaporti ai viaggiatori in coda prima di me glieli lancia, senza staccarsi dallo schienale. Fa uno scarabocchio, due timbri e òp! lancia il libretto con disprezzo, senza guardare in faccia il viandante.
Sta per timbrare il mio quando il polso si ferma a metà strada. Si china a guardare meglio il visto. Mi guarda in faccia e senza cambiare espressione cerca qualcuno dietro di me. Son fortunato, io, quando si tratta di passare un confine tra uno stato e un altro... mi vien da pensare.
Appoggia il mio passaporto di lato e mi fa cenno di aspettare, intanto una ragazza è entrata nell'ufficio e lui le sta impartendo ordini con voce militare.
Il visto, mi spiega la ragazza, è valido a partire da domani. In effetti vedo che se la richiesta è stata fatta per il giorno uno il permesso è stato rilasciato per il tre. Oggi è il due.
"E cosa posso fare?" Domando gentilmente alla ragazza. "Devi tornare in Lao", mi dice. Non posso. Il mio visto laotiano è già stato timbrato e non mi riaccetteranno nel paese. Mi vedevo già a passare una notte nella terra di nessuno fra i due stati. "Devi tornare in Lao" mi ripete a macchinetta. "Ufficiale anche tu?" Le domando, ma non coglie la provocazione.
Alla fine il doganiere mi accompagna al confine laotiano, poche centinaia di metri più indietro, e spiega la situazione. Vengo riaccettato in Lao. Il ragazzo con la moto mi porta nell'unico posto in cui poter dormire, una stamberga controllata da una megera, che mi accoglie in pigiama e mi fa vedere un garage in cui dovrei passare la notte. Non c'è finestra, non c'è il lavandino e il tubo della doccia lascia cadere un pisciolìo tristissimo e maleodorante. Comincio a contrattare anche con la locandiera, che si rivela uno squalo affamato di soldi. Dei miei soldi.
Intanto anche il ragazzo mi chiede i soldi. Divide et impera, insegnano gli antichi romani. Un problema alla volta. Esco dal portico della stamberga e chiamo il ragazzo a me. Gli allungo i 5000 kip e gli faccio un sorriso. Corruga la fronte e non è contento. Ne vuole altri. Non ne ho. "Finiti!" gli faccio vedere il portafogli completamente vuoto. Comincia a strepitare qualcosa, ma sono esasperato e gli dico che insomma se i soldi son finiti e il bancomat al confine era vuoto non è colpa mia, che se gli andava bene era così, altrimenti era così lo stesso, il tutto ad alto volume e in italiano, sentendomi un po' in colpa per approfittarmi di lui, un po' sperando che non si insospettisse. In fondo mi ero fermato alla locanda dell'arpìa, quindi dei soldi per pagarla dovevo pur averli.
Divide et impera, mi ripeto mentalmente. Il ragazzo se ne va, scalciando la polvere prima di ripartire furiosamente in motorino.
Un problema è risolto; male, ma è risolto.
La vecchia ora. Vuole cinque dollari a notte. Contrattazione furiosa per uno sconto. Nulla, nemmeno un dollaro. Mi chiede: "Quante notti ti fermi?" Ma dallo sguardo che le rimando capisce la risposta. E' l'unico posto per dormire, potrebbe chiederne anche venti, di dollari. Detiene il monopolio. Mi va bene che con il resto posso mangiare ad una bancarella che ho visto di fianco. Ok, va bene per i cinque dollari, ma voglio il resto in dollari, per non perderci nel cambio il giorno dopo. Riusciamo a cambiare la banconota da venti dollari con altri dollari, andando da tutti i malcapitati figuri delle baracche circostanti, passo il pomeriggio in stanza al computer. La sera mi ritrovo a cenare sul bordo di questa strada che mi porterà in Vietnam, proteggendo il mio piatto dalla polvere dei camion che passano veloci e suscitando interesse nei pulciosissimi cani della zona.
Sperando che non passasse di lì il ragazzo del motorino.

DAG