venerdì 9 maggio 2008

Lào Bào.

I posti di confine sono quasi sempre brutti. Bisognerebbe imparare a cancellare i primi e gli ultimi momenti che trascorriamo in un paese, soprattutto se entriamo o usciamo via terra, perché dalle esperienze che mi sono fatto posso dire che le persone che vivono vicino ai confini sono peggiori, con turisti e viandanti, di quelle che stanno all'interno del paese. C'è meno attaccamento ai luoghi, tutto sembra essere più provvisorio.
Da Luang Prabang mi muovo di gran carriera verso il Vietnam, ripercorrendo in autobus molti dei luoghi visitati con Jun. E' trascorso solo un mese, ma mi sembra di essere passato di qui molto, molto tempo fa.
Da Luang Prabang prendo il bus per Vientiane, che arriva in dodici ore. Folle corsa in tuc tuc da una stazione all'altra per prendere la coincidenza con il bus che parte dopo venti minuti, ma c'è posto, ho fatto telefonare da una stazione all'altra. Riesco a prendere il bus per Savannakhet, bus su cui passerò la nottata. Un'altra nottata in bus, l'ennesima. Arrivo a Savannakhet alle quattro e un quarto del mattino; anche se è ancora notte il clima diverso si fa sentire, fa più caldo, ci sono più zanzare, gli odori non sono più quelli della vegetazione umida del nord del Lao, ma quelli delle strade polverose dell'altipiano.
Cerco di dormire sdraiato su una panca della stazione dei bus, ma non c'è verso, zanzare e persone intorno mi tengono sveglio. Un tramestìo aumentato mi fa capire che stanno preparando il bus su cui dovrò fare l'ultimo pezzo di strada (sette ore) prima di arrivare a Lào Bào.
Il bus è il più scalcagnato della storia, mi fa pensare ai servizi sulle carrette del mare su cui, a migliaia, si imbarcano i profughi dei paesi più sfortunati. Solo che loro sono tristi, qui sembriamo tutti più allegri. Il pavimento del bus è costituito da assi di legno. Davanti, dove siedo io, il pavimento è in lamiera, e in molti punti si vede correre l'asfalto sottostante. Cado in una specie di dormiveglia con spezzoni di sogni sparsi.
Sono su un autobus ma c'è il mare mosso, ed ho un piede nell'acqua. L'acqua è fredda ma ho il piede lì e non lo posso muovere, non ricordo perché.
Ad un certo punto vengo svegliato da un suono stridente, acuto, che mi allarma. Pneumatici che frenano di colpo, a lungo, ma non c'è nessuna frenata in realtà. Ho i battiti accelerati e sono tutto sudato. Mi riprendo dal torpore, giro a fatica il collo semibloccato e vedo che nel bus ci sono due maiali, uno dei quali si è messo a grugnire così, apparentemente senza motivo, emettendo un acutissimo "SSSGGGGRRRRRUUUIIIIIIIIIIII'KK!" che, nel sonno, avevo scambiato per una frenata improvvisa.
Guardo le facce degli altri passeggeri: tutti impassibili. Mentre cerco di far tornare la circolazione nel piede che mi si era incastrato tra il sedile e lo zaino mi vien da ridere, penso ai mezzi pubblici a Milano, a portare un paio di suini sulla 73 in direzione Linate e vedere le facce della gente...
Il bus continua la sua corsa (anche se di corsa proprio non si può parlare) e viaggia attraverso la pianura; una distesa di risaie, campi di granturco e villaggi. Stiamo attraversando il Lao verso est, tirando dritto verso il confine, dove si trova il villaggio di Lào Bào che, mi dico, dev'essere un'altra chicca sperduta nella remota Asia incontaminata. Un ultimo villaggio incantato prima di tornare in Vietnam, ancora una volta polli e bambini e niente elettricità.
Mi immagino.
Nel corso delle numerosissime fermate il bus carica e scarica gente, bagagli, animali. In due occasioni salgono frotte di ragazzine che vendono il pollo arrostito e lo sticky rice. Il pollo, serrato tra due stecche di bambù legate assieme, è arrostito sulla brace al momento e lo sticky rice è uno dei prodotti più caratteristici del Lao: è un riso cotto, lasciato freddare, girato e ricotto al vapore. Ha la caratteristica di diventare compattissimo, formando un blocco unico che va spezzato a mano. Tutti, bambini e adulti, ne vanno ghiotti e quando è fatto bene è davvero buono, perché ha un sapore tostato e profuma di teak. Viene tenuto ben stretto in pugno, a pallina, e addentato ogni tanto. Un morso al pollo, un morso alla palla di riso. Ho proprio fame. Decido che è giunto il momento e mi lancio, del resto non mi sono mai sentito così in mezzo ai locali come qui in Lao e questo cibo non va contro le mie regole: è un cibo molto venduto, quindi ha molto ricambio ed è probabilmente fresco e viene cotto al momento sulle braci. Eventuali germi dovrebbero essere eliminati. Stessa cosa per quanto riguarda il riso, alimento consumato più che in abbondanza qui in Asia. Pago la ragazzina e mi ritrovo con la mia colazione in mano, l'acqua e il resto dei soldi, un po' impacciato perché non so da dove iniziare. Innanzitutto ho in mano quattro cose e ho solo due mani, devo capire come evitare le ossa del pollo e non posso appoggiare nulla da nessuna parte perché tutto è troppo sporco. La ragazzina mi guarda e mi allunga un sacchetto in cui mettere pollo e riso. La sua espressione non è mutata ma dentro di sé deve pensare: "Guarda quest'imbranato..."
Finita la sosta il bus fa per ripartire ma il motore si spegne. I tentativi del guidatore terminano quando una nuvola di fumo azzurrognolo invade il bus, facendo tossire tutti.
"E' il cambio" dico io in italiano, indicando la spranga rugginosa con cui l'autista ingrana le marce, apparentemente a casaccio ma sempre a fatica. "Aà", mi risponde lui, non so se in laotiano o in italiano, fatto sta che adesso tutti gli uomini presenti nel bus stanno parlando fra loro, scambiandosi opinioni e indicando il motore. Scendiamo tutti e uno, due, tre! ci mettiamo a spingere l'autobus. Che carini! Contiamo tutti fino a tre in laotiano e poi giù un bel ruzzone, per smuovere il dinosauro rugginoso. Dentro, i due maiali stanno facendo un concerto di grugniti acutissimi, ad incitare. Le donne, a bordo strada, ci guardano e ridono. No, MI guardano e ridono; alcune ne approfittano per fare pipì.
Non so come, il bus riparte. La meritata colazione si rivela buonissima, divoro tutto il pollo e il riso fino all'ultimo boccone.
La corsa termina nel solito piazzale polveroso, pieno di buche e circondato da baracche, con uno stormo di motorini che ci corre incontro e si ferma a pochi centimetri dalle fiancate del bus. L'autista mi fa ceno di scendere, seguendo tutti gli altri. Strano, non ho visto nessun villaggio! Infatti non c'è nessun villaggio.
Lào Bào non è in Lao.
E' in Vietnam, a est del confine. Ero venuto qui per godermi l'ultima esperienza nel villaggio laotiano, e mi ritrovo in un orrendo posto di confine, composto da una strada, enormi camion arrugginiti parcheggiati da chissà quando e cani randagi. Certo non voglio passare una nottata in questo posto, mi dico. Tanto vale passare il confine da subito, e mi metto a contrattare con un tipo in moto. Il confine è a tre chilometri e io ho solo 5000 kip, 40 centesimi. Accetterà i 40 centesimi, penso, gli dò una pacca sulla spalla e gli dico:"Go."
Ho anche una banconota da 20 dollari nascosta in tasca, tutta sudaticcia e macilenta, che mi sarebbe servita per mangiare un giorno e dormire una notte a Lào Bào. Non mi azzardo a mostrargliela, sarebbe la fine.
Per il resto, ho finito i soldi.
Arriviamo al confine e subito la rigida procedura dei militari vietnamiti si fa notare: mi controllano il passaporto ogni venti metri. L'ufficiale che mi deve mettere il timbro ha l'aria a dir poco scazzata: sdraiato nella sua poltrona dallo schienale tutto all'indietro, al posto di consegnare i passaporti ai viaggiatori in coda prima di me glieli lancia, senza staccarsi dallo schienale. Fa uno scarabocchio, due timbri e òp! lancia il libretto con disprezzo, senza guardare in faccia il viandante.
Sta per timbrare il mio quando il polso si ferma a metà strada. Si china a guardare meglio il visto. Mi guarda in faccia e senza cambiare espressione cerca qualcuno dietro di me. Son fortunato, io, quando si tratta di passare un confine tra uno stato e un altro... mi vien da pensare.
Appoggia il mio passaporto di lato e mi fa cenno di aspettare, intanto una ragazza è entrata nell'ufficio e lui le sta impartendo ordini con voce militare.
Il visto, mi spiega la ragazza, è valido a partire da domani. In effetti vedo che se la richiesta è stata fatta per il giorno uno il permesso è stato rilasciato per il tre. Oggi è il due.
"E cosa posso fare?" Domando gentilmente alla ragazza. "Devi tornare in Lao", mi dice. Non posso. Il mio visto laotiano è già stato timbrato e non mi riaccetteranno nel paese. Mi vedevo già a passare una notte nella terra di nessuno fra i due stati. "Devi tornare in Lao" mi ripete a macchinetta. "Ufficiale anche tu?" Le domando, ma non coglie la provocazione.
Alla fine il doganiere mi accompagna al confine laotiano, poche centinaia di metri più indietro, e spiega la situazione. Vengo riaccettato in Lao. Il ragazzo con la moto mi porta nell'unico posto in cui poter dormire, una stamberga controllata da una megera, che mi accoglie in pigiama e mi fa vedere un garage in cui dovrei passare la notte. Non c'è finestra, non c'è il lavandino e il tubo della doccia lascia cadere un pisciolìo tristissimo e maleodorante. Comincio a contrattare anche con la locandiera, che si rivela uno squalo affamato di soldi. Dei miei soldi.
Intanto anche il ragazzo mi chiede i soldi. Divide et impera, insegnano gli antichi romani. Un problema alla volta. Esco dal portico della stamberga e chiamo il ragazzo a me. Gli allungo i 5000 kip e gli faccio un sorriso. Corruga la fronte e non è contento. Ne vuole altri. Non ne ho. "Finiti!" gli faccio vedere il portafogli completamente vuoto. Comincia a strepitare qualcosa, ma sono esasperato e gli dico che insomma se i soldi son finiti e il bancomat al confine era vuoto non è colpa mia, che se gli andava bene era così, altrimenti era così lo stesso, il tutto ad alto volume e in italiano, sentendomi un po' in colpa per approfittarmi di lui, un po' sperando che non si insospettisse. In fondo mi ero fermato alla locanda dell'arpìa, quindi dei soldi per pagarla dovevo pur averli.
Divide et impera, mi ripeto mentalmente. Il ragazzo se ne va, scalciando la polvere prima di ripartire furiosamente in motorino.
Un problema è risolto; male, ma è risolto.
La vecchia ora. Vuole cinque dollari a notte. Contrattazione furiosa per uno sconto. Nulla, nemmeno un dollaro. Mi chiede: "Quante notti ti fermi?" Ma dallo sguardo che le rimando capisce la risposta. E' l'unico posto per dormire, potrebbe chiederne anche venti, di dollari. Detiene il monopolio. Mi va bene che con il resto posso mangiare ad una bancarella che ho visto di fianco. Ok, va bene per i cinque dollari, ma voglio il resto in dollari, per non perderci nel cambio il giorno dopo. Riusciamo a cambiare la banconota da venti dollari con altri dollari, andando da tutti i malcapitati figuri delle baracche circostanti, passo il pomeriggio in stanza al computer. La sera mi ritrovo a cenare sul bordo di questa strada che mi porterà in Vietnam, proteggendo il mio piatto dalla polvere dei camion che passano veloci e suscitando interesse nei pulciosissimi cani della zona.
Sperando che non passasse di lì il ragazzo del motorino.

DAG