venerdì 23 maggio 2008

Saigòn Photo gallery.

In questi giorni di frenetica attività a Saigòn non ho solo svolto la mia indagine sulla possibilità di lavorare con le case editrici vietnamite, ho anche cercato e trovato un laboratorio fotografico che stampasse in buona qualità le immagini migliori tra quelle scattate durante questo viaggio.
Come ho già avuto modo di raccontare, qui le aree commerciali sono a tema, c'è la zona dei computer, quella delle ciabatte e la zona dei laboratori fotografici professionali, il paradiso del fotografo, diciamo.
Al centro della strada dei laboratori sta il Vietnam Lab center.
Il Vietnam Lab center raccoglie quasi tutte le immagini da stampare per la città di Saigòn, in quanto ha un retrobottega enorme, una vera e propria fabbrica, con tre "Lambda". Il Lambda è una macchina da stampa dell'ultima generazione, dalla qualità e dal costo estremi. Tale centro è gestito da una coppia probabilmente troppo impegnata per godersi il fatto di essere benestante, ma comunque gentili e disponibili. Lei, la signora Vàn (in effetti è un po' grassottella) sta in negozio, coordina tutti i lavoranti e si occupa dei clienti grossi, lui, mister Dinh Minh, era un personaggio fino ad oggi a me ignoto.
Dopo aver passato tre giornate intere a contrattare, a metterci d'accordo sui prezzi, sulle modalità di spedizione e di pagamenti futuri con la signora Vàn e la sua interprete, oggi sono andato finalmente a ritirare le stampe che ho fatto fare. Una settantina, belle grandi.
La ragazza che parla inglese ed è diventata la mia referente mi ha detto: "Aspetta un attimo che il boss vuole vederti" e ha preso il telefono in mano.
"Perché vuole vedermi il proprietario del negozio?" Mi son chiesto.
Un vago sospetto ce l'avevo e dentro di me stavo già sorridendo, ma non volevo farmi illusioni, poteva essere anche che avessero sbagliato a dirmi il prezzo e dovevo pagare il doppio.
Quando Mr Minh è arrivato ho capito subito che il prezzo che mi avevano fatto era giusto e che lui era sinceramente felice di incontrarmi.
Mr Minh è un fotografo professionista, titolare del centro e il personaggio che tira le fila di molti piccoli fotografi in Saigòn. Le immagini che coprono le pareti del laboratorio sono tutte sue, e anche qualche immagine pubblicitaria che si può vedere in giro per la città.
Mr Minh (che io ho chiamato in sbaglio, un paio di volte, Mr Bìn, scusandomi subito dopo) è piccoletto, coi baffi e i capelli arricciati, tenuti un po' lunghi. I capelli lunghi e arricciati devono essere una sorta di status symbol, un segnale che comunica: "Guardate che io sono un artista", non è il primo caso che mi capita di osservare.
Mr Minh non parla una parola di inglese, ma il suo sorriso entusiasta mi ha comunicato subito molte cose. Ci ha tenuto a dirmi che lui è un fotografo professionista, specializzato in immagini panoramiche, e che le mie fotografie gli erano piaciute molto. "Qui vengono molti fotografi a stampare, ma le tue mi hanno proprio colpito!" Bene, grazie, sono molto contento di questa cosa. Gli ho regalato un cd con le mie immagini migliori, anche se in bassa risoluzione e protette dal mio marchio. E' stato felicissimo. Intanto si era messo a piovere e lui mi ha regalato un impermeabilino pieghevole, poi mi ha fatto una proposta.
"Io sono anche titolare di una delle gallerie più famose di Saigòn! Molti clienti vietnamiti vengono a comprare le fotografie da me quando vanno ad abitare nelle case nuove, magari dopo che si sono sposati. E ci sono sempre anche clienti stranieri", ha tenuto ad aggiungere.
"Ti va di esporre da me?"
Urca.
Ci ho pensato un attimo, poi gli ho detto che nel pomeriggio avrei avuto alcuni appuntamenti e che gli avrei fatto sapere.
Era vero, gli appuntamenti li avevo, e avrei usato il mio tempo per pensare. Dalla parte del no c'era il fatto di dover spendere per le cornici e fare un investimento che non sapevo se sarebbe rientrato, oltretutto non saprei come intascare gli eventuali soldi del venduto, visto che tra pochi giorni (ahimé) partirò da qui.
Dalla parte del sì c'era la possibilità di fare questa esperienza, un bel regalo al mio narcisismo, e la possibilità di usare questa cosa come grimaldello per i prossimi appuntamenti di carattere commerciale. La galleria è, in effetti, situata nel centro del centro di Saigòn, come fosse piazza Venezia a Roma o in Galleria a Milano.
Se il futuro è la "location", come dicono, non potevo avere posto migliore.
Sono tornato al centro di stampa dopo i vari colloqui con editori e direttori di testate e ho fatto telefonare a Mr Minh, per sapere quante foto potevo esporre.
Cinque può essere un buon numero, mi dice la ragazza. Decido di proporre sei, preferivo. "Ok, sei va bene".
Mi consegna un cartoncino con un indirizzo di un altro centro e mi dice di andare là, che una persona mi avrebbe accompagnato alla galleria.
La persona in questione era una bella ragazza vietnamita in elegante divisa da ufficio che mi ha accolto con un luminoso sorriso e mi ha detto: "Ah, lei è Mr Dàg! Prego, mi segua."
Ho evitato di mostrare emozione alcuna, ma dentro ero tutto felice. Stavo anche sudando come un idrante, forse per l'emozione. Sicuramente per l'emozione, visto che pioveva e non faceva tanto caldo.
L'interno della galleria era già ingombro di foto, tutte incorniciate, alcune molto grandi, quasi tutte fatte da Mr Minh, quelle per lo meno che portavano una firma. La ragazza, molto gentile ma non cerimoniosa, mi ha portato subito un bicchier d'acqua, poi mi ha guidato per un giro illustrativo della galleria, in realtà abbastanza piccola.
Il resto della mia visita l'ho passato con lei a vedere il contratto di vendita delle immagini, a parlare di prezzi e di modalità di consegna e di diritti di copyright, non molto romantico, ma rassicurante: i vietnamiti ci tengono a fare le cose per bene in merito ai diritti d'autore, è un argomento che nei colloqui con le case editrici viene sempre affrontato.
Gli eventuali soldi del venduto mi verranno accreditati sul conto, è la soluzione più semplice. Ma non crediate che negli altri stati del sud est asiatico funzioni così. L'ho detto che il Vietnam è speciale...
Bene, domani alle due verranno consegnate (in motorino, ci scommetto) sei fotografie formato 50x70 alla Saigòn Photo gallery, in elegante cornice di legno nero, che verranno tenute in esposizione a tempo indeterminato.
Alle tre brinderemo a questo mini avvenimento. Il mio problema adesso è questo: di recente ho disdegnato la frequentazione di turisti, e il giapponese Nakano è partito ieri pomeriggio per la Malesia. L'evento è troppo imminente per invitare i direttori e gli editori con cui ho fatto i colloqui e avere un minimo di certezza che verranno, ma ci proverò ugualmente.
Chi invito, altrimenti, T'aung, la mia amica in pigiama? Il ragazzo storpio che di proefssione scommette al bigliardo contro gli americani per vendetta? Oppure la donnina delle zuppe? O le "bamidulìn"?
Stasera esco e vado a cercare qualche possibile soggetto interessato...
Ma comunque, mi sono fatto un bel regalo.

DAG

giovedì 22 maggio 2008

Una serata elegante.

Il diciannove maggio ricorre l'Ho Chi Minh day, ovvero il compleanno di Ho CHi Minh, il leader che ha fondato il moderno Vietnam.
Zio Hò, come viene affettuosamente chiamato dai vietnamiti, in gioventù svolse il lavoro di pasticciere, in Francia, sotto la guida di Escoffier, e fu anche fotografo; in Vietnam è oggetto di un culto della persona che non accenna a diminuire.
Che fascino, questi fotografi...
Per il giorno di Ho Chi Minh in tutto il Vietnam si fa festa, a maggior ragione si festeggia nella città che dal '75 porta il suo nome.
Ed è proprio nella giornata di ieri che Nakano ed io siamo andati a festeggiare.
Chi è Nakano?
Eccovelo lì, un altro giapponese. Incontro Nakano ogni mattina, all'angolo di strada dove entrambi facciamo colazione. Una donnina installa molto presto una bancarella (un carrettino, in verità) all'angolo di una stradina del mio quartiere. Nakano ed io ci sediamo su questi sgabelli alti venti centimetri, vicino a tavoli alti quaranta, il tutto di plastica colorata, e ordiniamo la colazione. Uova strapazzate con cipolla e aglio, belle piccanti. La colazione arriva direttamente dentro il padellino di alluminio in cui la donnina l'ha cucinata ed è guarnita con prezzemolo, peperoncini interi, pepe, pomodori appena scottati, cetrioli tagliati sottili, tofu e un trito di noccioline. Il tutto è sfrigolante e meraviglioso. Ci viene data una baguette a testa, appena tolta dal forno e un bicchierone di caffè caldo. A mangiare vengono sia vietnamiti che turisti e generalmente Nakano ed io siamo quelli vestiti da ufficio. Pantaloni neri e camicia bianca, mangiamo tutti sbilanciati in avanti per non far colare tutto sulle braghe o far naufragare le uova sulla camicia. E' per questo motivo che ci siamo conosciuti, guardandoci e ridendo di noi, oltre che per l'abitudine a frequentare il solito posto (i giapponesi sono abitudinari e un po' anche io) e ci siamo, nella migliore tradizione asiatica, subito scambiati i biglietti da visita.
Nakano è l'amministratore delegato di una piccola società che compra e vende caffè in Giappone, Vietnam e Malesia. Ci interessiamo dei reciproci affari svolti il giorno prima mentre trangugiamo la colazione, poi ognuno va per la propria strada. Il giorno dopo, uguale. Nakano parla un inglese accettabile, ma io ho difficoltà a capirlo lo stesso. Dev'essere la mia condanna. Quando parla ha sempre la bocca piena, quindi non si capisce una mazza lo stesso. Nakano fa Kickboxing.
Ieri mattina mi ha detto: "Oggi è Ho Chi Minh day, grande festival per le strade. Io vado a vedere e faccio anche qualche foto. Vieni?"
"Dipende da come vanno gli appuntamenti, Nakà", gli ho detto. "Però mi piacerebbe!"
Alle tre del pomeriggio mi suona il telefono, il mio telefonino vietnamita: "Hello A'n dù réa, it's Nakano!"
" 'Oss Nakano San, come stai?" - "Bene, ma non c'è nessun festival. Solo qualche palloncino in giro e delle bandiere! Senti, stasera una mia amica vietnamita mi ha invitato a cena, vieni?" - "Volentieri, Nakano, grazie!" - "Dice che andiamo in un posto speciale, un po' strano."
Ahia.
Ai giapponesi piacciono le cose strane, e per i vietnamiti quasi nulla è strano, quindi se una vietnamita indica qualcosa come "strano" per noi sarà probabilmente oltre i limiti del paranormale.
Penso alla via con i cani appesi, prego che non sia quella la nostra destinazione.
Mentre aspettiamo la nostra ospite il giappo propone una birra, per socializzare meglio fra noi, mi dice chiaro e tondo.
Il taxi che siamo riusciti a trovare dopo averne scartati un po' (mai prendere i taxi che iniziano con il numero 9, hanno modificato i tassametri e le corse costano almeno tre volte più degli altri) ci ha lasciato ad una curva di una strada affollata di ristoranti e persone, tutti vietnamiti, tutti vestiti bene. Molte donne indossavano l'"Ao Dài", il tipico vestito elegante vietnamita, lungo e aderente, coperto da veli di seta bianca o rossa, che è una meraviglia a vedersi. Nakano ed io, giocandocela da businessmen navigati, eravamo eleganti e facevamo la nostra porca figura. La ragazza che era con noi, di cui non ricordo il nome, era in tailleur avorio, i capelli raccolti in un una crocchia stretta dietro la nuca in un'acconciatura da grande occasione.
La nostra eleganza ha fatto sì che fossimo perfettamente integrati con le centinaia di persone e di famiglie che affollavano il nostro ristorante e le decine di ristoranti attigui. Eravamo gli unici non-vietnamiti. "Ti piace il daino?" Mi chiede la nostra ospite. Mi si affaccia l'immagine di me che mastico penosamente una pelle di daino, una di quelle usate per pulire le auto. "Non l'ho mai provato, ma mi piacerebbe tanto!" Un daino in fondo è il meno peggio che potessi aspettarmi, deve sapere un po' di cervo, mi son detto.
Intanto sfoglio il menù, che è diviso in sezioni. Ogni sezione reca il disegno dell'animale in questione. Daino, il primo foglio. Rana, il secondo. Coniglio, il terzo. Papera o anatra il quarto. Gli animaletti son tutti disegnati con un faccino sorridente e gli occhietti vispi. Seguono un serpente, un cane (eccolo!), un porcospino e, buon ultimo, un ratto. Sì, un ratto. Un bel topone da farsi alla griglia.
Chiediamo birra e viene depositata pesantemente di fianco al nostro tavolo una cassa di birra coperta di ghiaccio. Non una birra, una cassa intera, a cui attingere a volontà.
"Cavallo non ne avete?" Chiedo, ormai alla terza birra, rivolgendomi al cameriere. "Cavallo?" Mi risponde. Ricevo uno sguardo stralunato. Devo aver chiesto una cosa davvero strana...
Intanto un gruppo di cinque camerieri si sta indaffarando attorno al nostro tavolo, e Nakano, tutto sorrisi e inchini verso la ospite, le sta spiegando che questa sera siamo lì in suo onore e che può ordinare quello che vuole e quanto ne vuole. "Ah, sì, aggiungo io, più sei felice tu, più siam felici noi!" Non è una cena di lavoro, ma loro hanno lavorato assieme in questi giorni, quindi per Nakano è molto importante che tutto vada bene. E poi i prezzi son bassi. Viene piazzato un vaso di terracotta con dentro le braci accese sul nostro tavolo, ci vengono date le bacchette per cucinare e quelle per mangiare. La fanciulla, nella migliore tradizione vietnamita, non tocca alcool, ma beve un orripilante succo color rosso sintetico.
Brindiamo parecchie volte mentre posiamo sulla griglia i filetti delle varie carni che i camerieri depositano di volta in volta sul nostro tavolo. Cambiano le carni ma cambia anche il modo in cui sono state marinate, da naturale a speziato. Ogni tanto un cameriere arriva e gira la griglia, a mani nude. Uno dei nostri camerieri è nuovo e viene preso in giro dagli altri perché ha paura di scottarsi. Nakano afferra la griglia a mani nude e la solleva, incurante del dolore. Tipica dimostrazione di forza da macho giapponese. Peccato che sulla griglia ci abbia lasciato sicuramente anche un pezzo di mano, e così vien fuori che l'animale più strano assaggiato quella sera è stato il giapponese alla birra.
Da un capo all'altro del ristorante riecheggiano le urla dei vietnamiti ubriachi che festeggiano: "Hò! Hò! Hò!" si sente urlare in coro. Inneggiano ad Hò Chi Minh e tracannano.
La chicca finale sono state delle uova di quaglia o di qualche altro volatile abbastanza piccolo. Si prende l'uovo, che è reso molliccio dalla cottura al vapore, afferrandolo con un ciuffo di foglie verdi, dal profumo di sapone per piatti al limone, si sbuccia e si mangia il tutto. Peccato che dentro il guscio l'uovo non sia ad uno stadio normale, ma ci sia l'embrione del pulcino già formato, tutto nero. Ho gentilmente declinato l'invito ad assaggiare queste uova, senza mostrare assolutamente il profondo schifo che mi suscitavano. Mi hanno beccato lo stesso. Nakano ha riso e ne ha mangiate sei. Poi mi ha confessato che però l'erba al limone proprio non gli piaceva.
"Beh, ti capisco..." gli ho detto, con fare ovvio.
La conversazione di fine pasto ci ha visto decantare le lodi del locale e delle carni assaggiate (davvero buone, non scherzo) e mentre dicevo cerimoniosamente alla fanciulla che ero sinceramente felice per l'invito e la serata speciale costei, tutta carina e impassibile nel suo tailleur color avorio, ha schiodato un rutto di almeno quindici secondi. Ho avuto uno sbandamento interiore per evitare di scoppiarle a ridere in faccia (anche io avevo attinto con piacere alla cassa di birre) e mi si sono riempiti gli occhi di lacrime, diventando tutto rosso.
Ho abbassato la faccia, in un tentativo disperato di non ridere, tenendo lo sguardo sul tovagliolo posato sul mio grembo. Quando ho rialzato gli occhi la ragazza stava candidamente aspettando che io finissi il mio discorso, non capendo cosa mi avesse distratto.
"Ecco..., è stato davvero speciale, non credevo." - "Sono felice" mi ha risposto lei con dolcezza, ignara della mia crisi di ilarità interna.
"Uh, anche io, anche io!", ho detto.

DAG

martedì 20 maggio 2008

63_Spontanei ma impenetrabili.

Adesso che ho arrestato per un po' il mio continuo movimento da un posto all'altro e che mi sono fermato qui a Saigòn ho modo di osservare alcune cose a fondo, in particolare quello che mi interessa maggiormente, ovvero lo svolgersi della vita quotidiana e il tessuto che la regola: le relazioni sociali.
Innanzitutto devo ammettere che non mi è chiaro come mai il Vietnam, in particolare Ho Chi Minh City (Saigòn), sia un posto in cui mi trovo tanto bene. Forse è la vitalità che anima la gente e le strade. Forse è il modo che hanno i vietnamiti di essere schietti e diretti. Ogni giorno assisto a qualche episodio (o ne faccio parte) che mi fa capire qualche cosa di più su questa popolazione e che mi stupisce. La mancanza di machismo (che non vuol dire che non ci sia discriminazione tra maschi e femmine) qui è diffusa come negli altri stati del sud est asiatico, ma tutti, sia maschi che femmine, sono un po' più rustici, meno cerimoniosi che nelle altre nazioni del circondario. E lo sanno. Uno dei due vecchietti con cui l'altro giorno ho avuto la fortuna di conversare mi ha detto: "Noi qui siamo pratici, i laotiani invece sono delle persone molto dolci". Ed è vero, ma questo aggettivo mi ha colpito, non mi aspettavo che venisse usato anche qui, da un vecchio vietnamita, specie se riferito ad un altro popolo. E' una cosa che può dire una qualsiasi ragazza che estasiata torna in America dopo un viaggio in Asia: "Oh, i laotiani... sono così dolci!"
Non so, dicevo, cosa mi piaccia di preciso del Vietnam. Sicuramente uno spiraglio di possibilità di lavorare me lo rende molto, molto interessante. Ma credo che l'aspetto speciale siano davvero le relazioni fra gli individui. Ho avuto modo, durante questo mio viaggio, di parlare con tanti viaggiatori che avevano pessimi ricordi del Vietnam e dei vietnamiti. Causa dell'attaccamento esasperato ai soldi e dal continuo martellare dei venditori. Non dico che non sia così e qualche fregatura me la sono presa anche io, ma dopo un po' si impara a trattare e ci si fa lo scudo.
Mai mangiare o bere qualcosa o accettare un passaggio (sia in moto che in taxi) senza aver prima contrattato la cifra. Pagherete tutto almeno il doppio. E litigare con i vietnamiti è sconsigliabile, come insegnano un po' di nazioni occidentali.
Stamattina però, a smentire la rusticità di alcuni vietnamiti, mi è successo un fatto curioso. Sono entrato in un bar, un bar a me nuovo, visto che qui ce ne sono tanti e ho deciso di provare tutti quelli che mi attirano; volevo prendere un caffè, un semplicissimo caffè vietnamita, di quelli col filtro sulla tazzina, che cola piano piano, forte e bollente. Sembrava che avessero solo caffè con ghiaccio. Non riuscivo a farmi capire. Un signore al tavolo affianco si è preso a cuore la mia situazione e, messo da parte il giornale che stava leggendo, ha telefonato a qualcuno con il suo cellulare. Poi mi ha appoggiato il telefono all'orecchio e una voce femminile mi ha chiesto, in anglo-vietnamita: "Cosa vuoi?" - "Un caffè, ma caldo, non col ghiaccio, per favore" ho risposto subito. "Ok, ok" ha detto la vocina di donna dall'altra parte. Ho ridato il telefono al mio vicino di tavolo che si è messo a parlare in modo concitato per dare ordini alla padrona del bar.
Ci siamo guardati tutti e tre in faccia, mentre ringraziavo tutti e ci siamo messi a ridere. La situazione è stata risolta in un modo anomalo e buffo, ma anche molto semplice e diretto. Tra l'altro il caffè che mi è arrivato era molto buono, proprio come lo volevo io.
I vietnamiti mi sembrano un popolo molto candido. Lo stile di vita qui implica molte responsabilità da parte di ognuno, sia grande che bambino. Mi spiego meglio, con alcuni esempi. In caso di incidente stradale chi sbaglia paga e l'assicurazione è obbligatoria, ma le regole del traffico sono perennemente trasgredite, vale la strada più breve e veloce, che sia tagliando curve, contromano o schivando gli altri motorini spesso per meno di un millimetro. La trasgressione è comunemente accettata e nessuno si scandalizza se, per esempio, andiamo contromano. Semplicemente tutti suonano il clacson per avvisarci che stanno arrivando. Possiamo trasportare carichi sporgenti, ma se causiamo un incidente siamo noi a pagare. L'altro giorno un signore ha caricato un frigorifero sul motorino ed è partito come se si trattasse della cosa più normale del mondo. Un frigorifero! Vi immaginate cosa succede se cade addosso a qualche anziana donna che va, chessò io, in bici?
I bambini imparano sin da piccoli che possono giocare per strada, ma che può essere pericoloso. Non sono così tutelati come da noi. Mi sembrano tutti molto più svegli.
No, scusate.
Lo sono.
La libertà personale è, nelle piccole cose quotidiane, molto più alta che negli stati occidentali. Vogliamo far da mangiare e venderlo per strada? Possiamo farlo, non occorre nessuna licenza. La gente deciderà il nostro successo o il nostro fallimento. Ecco perché è raro trovare cibo avariato, non per una questione di responsabilità legale, ma perché non rende. Penso a tutte le autorizzazioni necessarie nel mondo "civile". A chi rendono? Allungano una strada che potrebbe essere più semplice e fornire un regime di concorrenza vera, tutto a vantaggio del consumatore. Qui, l'ho già detto, si cena con meno di un dollaro.
I marciapiedi e i locali vietnamiti, quando non sono lasciati a cemento grezzo o asfalto, sono piastrellati con ceramiche lucide, che diventano scivolosissime quando il pavimento è bagnato. Ora, a Saigon, o qui o là, c'è sempre un po' d'acqua per terra. Semplicemente stai attento e cerchi di non cadere. Penso agli Stati Uniti che devono tenere sempre in bella vista l'orrendo segnale giallo "Attenzione, pavimento bagnato" (adesso anche in due lingue, inglese e ispanico) altrimenti qualcuno potrebbe cadere e far causa al locale. Attenzione, non farsi male, ma far causa al locale. Cari americani, avete dato agli avvocati il potere di fare il bello e il cattivo tempo con le leggi e di piegare le regole a favore dei privati per far soldi intentando cause artificiose contro chicchessia? E adesso vi beccate i cartelli gialli che deturpano l'estetica del vostro locale. C.Y.A. law, le chiama Warren, queste leggi (Cover Your Ass Law). Fatte apparentemente per proteggere i cittadini, in realtà per pararsi il culo dalle cause legali, come l'avviso che il fumo fa male sui pacchetti di sigarette.
Il tragico è che stiamo imboccando anche noi la stessa strada. La strada su cui il terrorismo attecchisce meglio.
Ma non voglio fare polemica qui e adesso, non c'entra molto e poi sarebbe un discorso molto lungo.
Un altro aspetto che caratterizza le relazioni sociali e le differenzia da quello a cui siamo abituati noi è l'imperscrutabilità dei volti.
Immaginiamo un ingorgo nel traffico di Milano: facce distorte dagli insulti sottovetro, mani che pestano sui clacson, occhiatacce, alzar di voci, magari gestacci, guance accaldate e paonazze dall'ira.
Qui no. Qui, dove l'ingorgo è perenne e mostruoso, suonano tutti il clacson, ma non si riesce mai a capire chi è stato, perché la faccia non cambia. Agli incroci o alle rotonde tagliare la strada al vicino è la regola, meglio se riusciamo anche a stringerlo contro il marciapiede o contro un camion che sopraggiunge da un'altra direzione. Il malcapitato o la malcapitata (non c'è galanteria nel traffico di Saigòn) sarà costretto a frenare bruscamente, ma senza tradire emozione alcuna. Scendere dal marciapiede col motore acceso e buttarsi a casaccio nel flusso degli altri motorini causando uno sbandamento generale e parecchie inchiodate è considerato normale, meglio se fatto senza guardare. Nel traffico bisogna schivare gli altri, le buche per terra, cercare di passare davanti infilandosi nel minimo spiraglio disponibile. Chiaro che il semaforo rosso diventa un'opzione da considerare solo di rado. Ogni tanto qualcuno ci viene addosso, Phùc ed io (Phùc è il mio driver ufficiale e traduttore qui a Saigòn, uno studente di buona famiglia che mi accompagna agli appuntamenti di lavoro, mi fa da interprete e mi consiglia su come muovermi con i businessman vietnamiti e con i vietnamiti in genere) veniamo scossi da un urtone. Qualcuno ci è appena venuto addosso. A meno di non avere danni, nessuno fa una piega. Nel senso che si continua nel traffico come se niente fosse. La velocità generale, c'è da dirlo, è molto molto bassa.
Sembrano imperturbabili, eppure notano tutto. Nessuno incontra gli occhi degli altri, ma tutti si tengono sott'occhio. I venditori per strada ci chiamano in continuazione per proporci chi un passaggio in moto, chi di lustrarci le scarpe, chi di comprare lo zippo appartenuto al soldato americano (ma quanti zippo aveva ogni soldato!?!? I venditori di zippo sono migliaia! Saran mica falsi!?) chi di farci fare un massaggio in qualche centro di lussuria oppure ci vuol vendere marijuana o oppio. La modalità del richiamo è varia: si passa dal classico "Hey, mister!" al più rustico "Ué!" al batter di mani. Alcuni addirittura mandano un bacino. Sì, un bacino verso di noi, "Smack!". Se noi li guardiamo negli occhi e diciamo "No, grazie" per loro è come se avessimo detto sì, perché abbiamo incrociato il loro sguardo, quindi vengono lì e insistono. A quel punto molti turisti si esasperano e diventano bruschi o offensivi. Se noi invece, senza guardarli né minimamente girare la testa o fare un movimento in più, appena sentiamo il richiamo al nostro indirizzo agitiamo leggermente la mano e facciamo un battito di palpebre, gli abbiamo detto di no in modo molto più efficace e non offensivo.
L'altro giorno ero con Phùc in libreria, a consultare alcune riviste di arredamento e a farmi indicare le case editrici. Ad un certo punto mi dice: "Guarda, ti sei comprato i pantaloni e la camicia eleganti, per fare il tuo business, ma tutti notano le tue scarpe. Non va bene che tu abbia le ciabatte, non è perfetto. Ci vogliono le scarpe giuste." - "Ma Phùc, tutti vanno in giro in ciabatte! E poi io non ho visto nessuno che mi guardava i piedi!" - "Se vuoi essere perfetto agli appuntamenti devi avere le scarpe chiuse, non le flìp - flàp." Mi ha detto senza scomporsi. "E poi tu non vedi gli sguardi della gente perché non sei di qui, ma ti notano tutti".
Urca.
Mi son sentito con le braghe calate.
"Phùc, non ho voglia di spendere altri soldi anche per le scarpe, e poi non ho più spazio in valigia." - "Non hai un paio di scarpe chiuse?" mi dice sempre senza mutare espressione e guardando in basso, verso uno scaffale "Sì, ma sono scarpe da ginnastica!" - "Va bene, metti quelle" - "Ma Phùc, sono GIALLE!!!" - Sempre rivolto allo scaffale, ha chiuso gli occhi per un secondo, come per avvisarmi della sentenza finale, poi ha detto: "Giallo va bene". E ha concluso il discorso.
Giallo va bene.

DAG

domenica 18 maggio 2008

I due vecchietti.

Il mio amico Lupo tanti anni fa mi raccontò un aneddoto. Era alla facoltà di agraria e stava preparando l'esame di entomologia quando, con alcuni amici, decise di fare uno scherzo. L'aula delle esercitazioni di entomologia è piena di armadi, ognuno con un centinaio di cassetti in legno, ciascuno dei quali raccoglie un'infinità di insetti, morti e perfettamente conservati. Per esercitarsi lo studente deve (credo che la cosa funzioni ancora nello stesso modo) imparare a riconoscere il maggior numero di insetti possibile e saperne citare almeno il nome nella classificazione linneiana, quella che raccoglie i nomi scientifici degli esseri viventi.
Ora, gli insetti contenuti nell'aula erano qualche centinaio di migliaia. Loro presero un insetto vivo (un coleottero, credo) e lo puntarono con lo spillo al posto di quello morto. Il povero coleottero ogni tanto agitava le ali, emettendo un ronzìo. Il sospirone spaventato di una studentessa gli fece capire che lo scherzo era pienamente riuscito: il terrore nella ragazza era stato suscitato non dal fatto di vedere un insetto vivo che agitava le ali, ma dalla logica conclusione che tutti gli insetti della stanza fossero vivi.
Oggi ho provato una cosa simile, anche se , per fortuna, l'ho provata in positivo, senza alcun allarme o terrore.
Stavo trottando per una via di Saigon molto, molto lunga alla ricerca di uno stampatore che mi era stato indicato da un fotografo locale quando il cielo si è fatto sempre più scuro, da nuvolo a grigio a nero, letteralmente nero e minaccioso, bassissimo. Siamo nella stagione delle piogge quindi è normale che una volta al giorno venga giù una sgravanata d'acqua che in pochi secondi lava tutto e tutti, senza alcuna pietà. Per fortuna la pioggia è calda, quindi c'è solo il disagio di essere bagnati e di dover proteggere eventuali libri o apparecchi elettronici, per il resto non è un gran problema. Di solito mi rifugio sotto la prima tettoia e aspetto che passi il grosso. Oggi non passava mai, le secchiate d'acqua (perché qui piove a secchiate) erano continue e costanti. Cuore in pace, me ne sto a guardare gli inarrestabili motociclisti di Saigon che estraggono gli impermeabili trasparenti, si coprono e continuano la loro corsa nel traffico, a colpi di clacson.
Che carini, pensavo...
Sono sotto la tenda di un barettino, e stavo aspettando che la pioggia rallentasse almeno un pochino, quando si ferma di fronte a me un motorino con su due vecchietti. Il passeggero, capelli e baffi bianchi, ha una faccia davvero simpatica e tiena in mano una bottiglia di rhum vietnamita. Il suo compare, il guidatore, ha i capelli tinti ed è vistosamente strabico. Danno qualche ordine alla ragazza che serve ai tavolini del bar (due in tutto) e mi invitano, in francese, a sedermi con loro. Io ringrazio e dopo aver constatato che la pioggia non accenna a smettere accetto, sedendomi e presentandomi. La ragazza porta tre bicchieri pieni di ghiaccio e tre bicchieri di tè, con ghiaccio anche quelli. Uno dei due vecchietti mi parla in francese (davvero un buon francese) e mi chiede le solite cose che si chiedono ai turisti, inclusa la solita, fatale domanda: "Ti piace il calcio?" - "No, sinceramente no", rispondo io. "Ah! E come mai? E' strano!" - "Sì, lo so, ma non mi piace perché nel calcio ci sono troppi soldi e troppa violenza" - "Ah, capisco... e ti dò ragione" mi dice il simpatico. Quell'altro, lo strabico, silenzioso in un primo momento, rivolge con un occhio a me e un occhio al suo motorino l'invito ad assaggiare con loro il fantastico - a sentir lui - rhum che hanno portato, che è di una nota marca vietnamita, e costa meno di un dollaro. "Questo" mi dice indicando la bottiglia e agitandola con vigore, "Non è un rhum fatto in economia, è di qualità! E' fatto con la canna da zucchero!" Mi chiedo quindi quanto possa costare un rhum economico e soprattutto con cosa lo possano fare se non con la canna da zucchero. Mi spiega che qui in Asia del sud hanno tanta canna da zucchero e quindi alcune aziende statali hanno deciso di produrre il rhum da sé, avendo imparato come si fa a Cuba e senza bisogno di importarlo. In effetti è vero.
"Questo governo è socialista, quindi ha simpatia per Cuba e Fidel Castro, e molte idee sono messe in comune, alcune anche divertenti, come il rhum, che può diventare un patrimonio culturale anche nostro". Mi colpisce sentire i nomi di Cuba e Fidel così diffusi in Asia, che sta dall'altra parte del mondo, ma abbiamo visto che stiamo su un pianeta grande quanto una pallina da golf, quindi è comprensibile.
Ci mettiamo a parlare del Vietnam, buona parte della conversazione è tenuta dal vecchietto strabico, che ha lavorato per anni con i francesi. L'altro beve e fa di sì con la testa, gli occhi a fessura in un perenne sorriso.
"Noi qui in Vietnam siamo pacifisti, è che ci hanno sempre costretto a fare la guerra, quindi siamo diventati bravi soldati, ma quello che ci aiuta è la testa", e si picchietta la fronte con l'indice. "Prendi la Cina. Per mille anni hanno provato ad invaderci e adesso apparentemente non c'è la guerra. Ma avere la Cina al di là del confine è come avere un amico troppo grosso e prepotente. Non c'è la guerra con le armi, ma ci sono tante manovre economiche, che poi sono le stesse che stanno dietro alle guerre". Colpito da tanta lucidità di ragionamento, lo lascio andare avanti, facendo anche io cenno di sì con la testa. "E ad un certo punto succederà qualcosa, anche se ci comportiamo da amici con la Cina, un po' come successe a Mussolini con Hitler. Mussolini pensava di diventare fortissimo alleandosi con Hitler, ma era Hitler che si è servito di Mussolini, questo gli italiani lo hanno capito e molti sono diventati partigiani e sono scappati sulle montagne per combattere i fascisti. E alla fine proteggevano gli ebrei, perché avevano capito che Hitler era davvero troppo pazzo!" E si picchietta ancora la fronte, nello stesso modo di prima.
"Ma tu guarda" - mi dico - "quante cose sa quest'uomo sulla storia moderna europea". Eppure è un commerciante che ha smesso di lavorare per raggiunta anzianità... E continua sorprendendomi sempre di più: "Adesso la Cina è diventata molto forte, ma è successo troppo in fretta. E tutto il mondo, che non è stupido, ha capito che da qualche parte c'è un trucco. E sai qual è l'inganno?" continua il vecchietto strabico, in un francese pieno di smorfie e occhi sgranati (il rhum in questo gli dà una mano) "La qualità!".
Ascolto sbalordito.
Sono gli stessi discorsi che sento fare dalle persone che in Italia hanno ben chiaro il quadro della situazione e che ascolto sempre con molta attenzione, perché è un tema che mi interessa.
"Adesso il vero obiettivo del Vietnam sarà avere la stabilità economica per poter comprare la qualità europea!"
L'altro vecchietto, intanto, quello simpatico, si mette a canticchiare una canzone, rendendo difficile per me capire chiaramente le parole dello strabico. Pioggia scrosciante, motorini e clacson già mi facevano stare con le orecchie tese al massimo per cogliere ogni parola del discorso dello strabico, adesso ci mancava pure la canzoncina del vecchietto vicino.
Non mi curo tanto del tempo che passa, a chiedere i prezzi dallo stampatore ci andrò domani, adesso mi piace star qui con questi due personaggi assolutamente unici, a sentire una vera lezione di storia europea moderna e contemporanea.
"Noi adesso non possiamo pensare tanto alla guerra, la guerra fa parte del passato. Dobbiamo pensare al futuro, e dobbiamo farlo seriamente. La politica vietnamita sta cambiando, il governo si sta aprendo sempre di più, ma dobbiamo stare attenti, per non passare dal socialismo al capitalismo estremo. L'educazione dei ragazzi è la cosa più importante, e anche la salute pubblica. E per fare questo i nostri dirigenti hanno bisogno di tutelare il passaggio verso il capitalismo mantenendo i valori del popolo, non come voi (e qui mi ha chiesto scusa) che avete messo Coccinella al parlamento." - "Chi???" Chiedo io, non sicuro di aver capito bene. "Coccinella, la bionda con i grossi seni di fuori!"
Coccinella è Cicciolina, non so se si stesse sbagliando il vecchietto o se qui l'abbiano chiamata così.
"Ah, ma quella è stata una delle pagine meno serie della politica italiana... una provocazione!"
Dico io, cercando di sdrammatizzare ma, in effetti, un po' a corto di parole in proposito.
"E adesso?" Incalza lo strabico, "Tutto il mondo critica la Cina perché non c'è libertà di espressione, e voi al governo avete quello là, che possiede anche le vostre televisioni..." mi mordicchio un labbro, intanto il vecchietto continua il suo monologo: "Pensiamo che internet sia una fonte di informazione libera, che permetta di comunicare senza essere troppo controllati, ma stiamo dando ancora tutto in mano ai cinesi, senza voler aprire i nostri occhi." Lo guardo senza capire. Lui se ne accorge e continua: "Sì, Yang Ho... lo sai chi è?" - "No", dico io. "Perché non vuoi aprire i tuoi occhi! Yang Ho...Yahoo! E' un cinese, il fondatore di Yahoo."
Sono assolutamente esterrefatto dalle cose che mi dice quest'uomo. Voglio credere che siano tutte vere, al momento. (Arrivato a casa ho controllato su internet. E' vero). Mi guardo intorno, i miei occhi spaziano sulle centinaia e centinaia di caschi multicolori che affollano perennemente l'incrocio antistante il bar. "E se fossero tutti così?" Mi chiedo. "E se questo popolo, fatto da milioni di persone che io ho sempre visto come un popolo-formicaio, ammirandoli per la loro laboriosità e la loro capacità di adattamento ma anche guardando a loro come una miriade di personaggi tanto carini, minuti, svelti nei movimenti, fosse fatto di qualche milione di cervelli come questo qui?
Metto a fuoco la mia attenzione sulla canzoncina del vecchietto simpatico. Mi rendo conto che sta cantando in italiano: "Sei grande grande grande come te, sei grande solamente tuuuuuu...!" - "Ma è Mina!" gli dico. "Eh oui! J'aime bien Mina!" Altro scrollone al mio quadro del vietnamita-tipo.
E se tutti questi individui, che non mutano mai espressione e si tengono tutte le emozioni dentro, ma che sono perfettamente in grado di leggere ogni nostra espressione e di interpretarla nel modo corretto, non fossero semplicemente "degli omini tanto carini" ma un esercito di uomini e donne preparati, istruiti e pronti ad assorbire quanto arriva da fuori e farlo loro?
Come se tutti gli insetti intorno a me fossero vivi, sensazione di essere circondato e mi sento io, adesso, tanto piccino.
Ho provato un momento di vertigine, all'idea che tutti intorno a me sapessero tutto, o tanto più di quel che so io sulla storia della mia parte di mondo, oltre che della loro.
E' stata una bella lezione di umiltà, anche.
Per fortuna i due vecchietti erano davvero saggi e animati da una sincera voglia di fare due chiacchiere, senza esibizionismi o voglia di polemiche. Hanno ordinato un piattino di salumi affumicati e verdure tagliate sottili, che abbiamo mangiato pian piano, mentre un bicchiere di rhum seguiva l'altro. Un po' di ghiaccio, due chiacchiere, un sorso, una fettina di prosciutto d'oca affumicato, uno sguardo alla pioggia...
Abbiamo fatto secca la bozza di rhum, quando ci siamo salutati il vecchietto strabico mi ha voluto dare il suo indirizzo email, poi ha aggiunto: "Pioggia fortunata oggi, il brutto tempo ci ha fatto incontrare, e io sono molto felice di questo".
E l'altro, il simpatico, sempre più sorridente e con gli occhietti sempre più a fessura: "Gli piace tanto parlare, ha l'animo politico... io ti dico solo questo: la vita è meravigliosa".
E' vero.

DAG