giovedì 22 maggio 2008

Una serata elegante.

Il diciannove maggio ricorre l'Ho Chi Minh day, ovvero il compleanno di Ho CHi Minh, il leader che ha fondato il moderno Vietnam.
Zio Hò, come viene affettuosamente chiamato dai vietnamiti, in gioventù svolse il lavoro di pasticciere, in Francia, sotto la guida di Escoffier, e fu anche fotografo; in Vietnam è oggetto di un culto della persona che non accenna a diminuire.
Che fascino, questi fotografi...
Per il giorno di Ho Chi Minh in tutto il Vietnam si fa festa, a maggior ragione si festeggia nella città che dal '75 porta il suo nome.
Ed è proprio nella giornata di ieri che Nakano ed io siamo andati a festeggiare.
Chi è Nakano?
Eccovelo lì, un altro giapponese. Incontro Nakano ogni mattina, all'angolo di strada dove entrambi facciamo colazione. Una donnina installa molto presto una bancarella (un carrettino, in verità) all'angolo di una stradina del mio quartiere. Nakano ed io ci sediamo su questi sgabelli alti venti centimetri, vicino a tavoli alti quaranta, il tutto di plastica colorata, e ordiniamo la colazione. Uova strapazzate con cipolla e aglio, belle piccanti. La colazione arriva direttamente dentro il padellino di alluminio in cui la donnina l'ha cucinata ed è guarnita con prezzemolo, peperoncini interi, pepe, pomodori appena scottati, cetrioli tagliati sottili, tofu e un trito di noccioline. Il tutto è sfrigolante e meraviglioso. Ci viene data una baguette a testa, appena tolta dal forno e un bicchierone di caffè caldo. A mangiare vengono sia vietnamiti che turisti e generalmente Nakano ed io siamo quelli vestiti da ufficio. Pantaloni neri e camicia bianca, mangiamo tutti sbilanciati in avanti per non far colare tutto sulle braghe o far naufragare le uova sulla camicia. E' per questo motivo che ci siamo conosciuti, guardandoci e ridendo di noi, oltre che per l'abitudine a frequentare il solito posto (i giapponesi sono abitudinari e un po' anche io) e ci siamo, nella migliore tradizione asiatica, subito scambiati i biglietti da visita.
Nakano è l'amministratore delegato di una piccola società che compra e vende caffè in Giappone, Vietnam e Malesia. Ci interessiamo dei reciproci affari svolti il giorno prima mentre trangugiamo la colazione, poi ognuno va per la propria strada. Il giorno dopo, uguale. Nakano parla un inglese accettabile, ma io ho difficoltà a capirlo lo stesso. Dev'essere la mia condanna. Quando parla ha sempre la bocca piena, quindi non si capisce una mazza lo stesso. Nakano fa Kickboxing.
Ieri mattina mi ha detto: "Oggi è Ho Chi Minh day, grande festival per le strade. Io vado a vedere e faccio anche qualche foto. Vieni?"
"Dipende da come vanno gli appuntamenti, Nakà", gli ho detto. "Però mi piacerebbe!"
Alle tre del pomeriggio mi suona il telefono, il mio telefonino vietnamita: "Hello A'n dù réa, it's Nakano!"
" 'Oss Nakano San, come stai?" - "Bene, ma non c'è nessun festival. Solo qualche palloncino in giro e delle bandiere! Senti, stasera una mia amica vietnamita mi ha invitato a cena, vieni?" - "Volentieri, Nakano, grazie!" - "Dice che andiamo in un posto speciale, un po' strano."
Ahia.
Ai giapponesi piacciono le cose strane, e per i vietnamiti quasi nulla è strano, quindi se una vietnamita indica qualcosa come "strano" per noi sarà probabilmente oltre i limiti del paranormale.
Penso alla via con i cani appesi, prego che non sia quella la nostra destinazione.
Mentre aspettiamo la nostra ospite il giappo propone una birra, per socializzare meglio fra noi, mi dice chiaro e tondo.
Il taxi che siamo riusciti a trovare dopo averne scartati un po' (mai prendere i taxi che iniziano con il numero 9, hanno modificato i tassametri e le corse costano almeno tre volte più degli altri) ci ha lasciato ad una curva di una strada affollata di ristoranti e persone, tutti vietnamiti, tutti vestiti bene. Molte donne indossavano l'"Ao Dài", il tipico vestito elegante vietnamita, lungo e aderente, coperto da veli di seta bianca o rossa, che è una meraviglia a vedersi. Nakano ed io, giocandocela da businessmen navigati, eravamo eleganti e facevamo la nostra porca figura. La ragazza che era con noi, di cui non ricordo il nome, era in tailleur avorio, i capelli raccolti in un una crocchia stretta dietro la nuca in un'acconciatura da grande occasione.
La nostra eleganza ha fatto sì che fossimo perfettamente integrati con le centinaia di persone e di famiglie che affollavano il nostro ristorante e le decine di ristoranti attigui. Eravamo gli unici non-vietnamiti. "Ti piace il daino?" Mi chiede la nostra ospite. Mi si affaccia l'immagine di me che mastico penosamente una pelle di daino, una di quelle usate per pulire le auto. "Non l'ho mai provato, ma mi piacerebbe tanto!" Un daino in fondo è il meno peggio che potessi aspettarmi, deve sapere un po' di cervo, mi son detto.
Intanto sfoglio il menù, che è diviso in sezioni. Ogni sezione reca il disegno dell'animale in questione. Daino, il primo foglio. Rana, il secondo. Coniglio, il terzo. Papera o anatra il quarto. Gli animaletti son tutti disegnati con un faccino sorridente e gli occhietti vispi. Seguono un serpente, un cane (eccolo!), un porcospino e, buon ultimo, un ratto. Sì, un ratto. Un bel topone da farsi alla griglia.
Chiediamo birra e viene depositata pesantemente di fianco al nostro tavolo una cassa di birra coperta di ghiaccio. Non una birra, una cassa intera, a cui attingere a volontà.
"Cavallo non ne avete?" Chiedo, ormai alla terza birra, rivolgendomi al cameriere. "Cavallo?" Mi risponde. Ricevo uno sguardo stralunato. Devo aver chiesto una cosa davvero strana...
Intanto un gruppo di cinque camerieri si sta indaffarando attorno al nostro tavolo, e Nakano, tutto sorrisi e inchini verso la ospite, le sta spiegando che questa sera siamo lì in suo onore e che può ordinare quello che vuole e quanto ne vuole. "Ah, sì, aggiungo io, più sei felice tu, più siam felici noi!" Non è una cena di lavoro, ma loro hanno lavorato assieme in questi giorni, quindi per Nakano è molto importante che tutto vada bene. E poi i prezzi son bassi. Viene piazzato un vaso di terracotta con dentro le braci accese sul nostro tavolo, ci vengono date le bacchette per cucinare e quelle per mangiare. La fanciulla, nella migliore tradizione vietnamita, non tocca alcool, ma beve un orripilante succo color rosso sintetico.
Brindiamo parecchie volte mentre posiamo sulla griglia i filetti delle varie carni che i camerieri depositano di volta in volta sul nostro tavolo. Cambiano le carni ma cambia anche il modo in cui sono state marinate, da naturale a speziato. Ogni tanto un cameriere arriva e gira la griglia, a mani nude. Uno dei nostri camerieri è nuovo e viene preso in giro dagli altri perché ha paura di scottarsi. Nakano afferra la griglia a mani nude e la solleva, incurante del dolore. Tipica dimostrazione di forza da macho giapponese. Peccato che sulla griglia ci abbia lasciato sicuramente anche un pezzo di mano, e così vien fuori che l'animale più strano assaggiato quella sera è stato il giapponese alla birra.
Da un capo all'altro del ristorante riecheggiano le urla dei vietnamiti ubriachi che festeggiano: "Hò! Hò! Hò!" si sente urlare in coro. Inneggiano ad Hò Chi Minh e tracannano.
La chicca finale sono state delle uova di quaglia o di qualche altro volatile abbastanza piccolo. Si prende l'uovo, che è reso molliccio dalla cottura al vapore, afferrandolo con un ciuffo di foglie verdi, dal profumo di sapone per piatti al limone, si sbuccia e si mangia il tutto. Peccato che dentro il guscio l'uovo non sia ad uno stadio normale, ma ci sia l'embrione del pulcino già formato, tutto nero. Ho gentilmente declinato l'invito ad assaggiare queste uova, senza mostrare assolutamente il profondo schifo che mi suscitavano. Mi hanno beccato lo stesso. Nakano ha riso e ne ha mangiate sei. Poi mi ha confessato che però l'erba al limone proprio non gli piaceva.
"Beh, ti capisco..." gli ho detto, con fare ovvio.
La conversazione di fine pasto ci ha visto decantare le lodi del locale e delle carni assaggiate (davvero buone, non scherzo) e mentre dicevo cerimoniosamente alla fanciulla che ero sinceramente felice per l'invito e la serata speciale costei, tutta carina e impassibile nel suo tailleur color avorio, ha schiodato un rutto di almeno quindici secondi. Ho avuto uno sbandamento interiore per evitare di scoppiarle a ridere in faccia (anche io avevo attinto con piacere alla cassa di birre) e mi si sono riempiti gli occhi di lacrime, diventando tutto rosso.
Ho abbassato la faccia, in un tentativo disperato di non ridere, tenendo lo sguardo sul tovagliolo posato sul mio grembo. Quando ho rialzato gli occhi la ragazza stava candidamente aspettando che io finissi il mio discorso, non capendo cosa mi avesse distratto.
"Ecco..., è stato davvero speciale, non credevo." - "Sono felice" mi ha risposto lei con dolcezza, ignara della mia crisi di ilarità interna.
"Uh, anche io, anche io!", ho detto.

DAG

1 commento:

Anonimo ha detto...

..un rutto come commento proprio non mi viene, scusa