giovedì 17 aprile 2008

L'elefante.

Ho appena trovato una sistemazione nel villaggio di Pha Pho, dove mr. Bhom, il classico signore tuttofare (una figura comune anche nei nostri paesi più piccoli) affitta camere ai viandanti. Mr. Bhom, che parla un po' di francese, vive con la famiglia nella casa accanto, ma forse la sua famiglia si estende anche alle altre due case adiacenti. Tra figli e nipoti saranno una trentina di persone. E' anche il medico e il farmacista del paese, nonché veterinario.
Due sono le figlie che lavorano alla guesthouse, una parlicchia inglese, si chiama Dubi e fa da mangiare. Malissimo. Prima faceva la maestra nella scuola di Pakxé, la città più vicina.
L'altra non parla mai, sorride sempre e deve aver avuto un grave problema o subito un brutto incidente, perché ha il setto nasale sfondato e un occhio chiuso, la faccia deformata. E' la più simpatica, mi fa dei gran sorrisoni quando la saluto la mattina in laotiano, dicendole "Sabaidee!" Si inchina e ride.
Il signor Bhom mi parla della birra Lao, mentre mangio il terribile pastone zuccheroso preparatomi dalla sciagurata figlia (ma non poteva restare a fare la maestra? C'è tanto bisogno di istruzione, nel mondo...) e mi dice che è così buona perché per farla ci mettono dentro il riso e la frutta, mentre nelle altre birre non mettono neanche un po' di riso, solo la frutta.
Non si è mai finito di imparare...
Mentre mi parla vedo che brandeggia una siringa. Si china e fa un'iniezione nella pancia ad un altro signore, più anziano, che era sdraiato in silenzio su una panca. Io, aiutato dal delizioso pranzetto, ho un urto di vomito. Mi giro dall'altra parte.
Hai voluto andare nei villaggi in cerca della vita selvatica? Beccatela, adesso, e divertiti.
Mr Bhom mi dice che intorno al villaggio non c'è niente, solo campi, e più lontano, la giungla. "Bello!" dico io, "E come si può andare nella giungla?" "Con l'elefante".
Mi spiega che lui e un suo amico hanno un paio di elefanti, con cui trasportano i tronchi più pesanti per costruire le case, e che se voglio posso andare a fare un giro. Ovviamente accompagnato dal suo amico. Nove dollari. Ok, affare fatto.
Nel frattempo sono molto incuriosito dalla presenza di elefanti nella zona, decido di andare a vederli da vicino. Mr Bhom mi indica un campo, un campo immenso, diviso in due da una strada sterrata che si estende a perdita d'occhio.
Mi incammino per la strada, e ad un certo punto individuo due bestioni, lontani lontani, che ciondolano le proboscidi nel sole torrido, con movimenti lenti.
Mi avvicino sempre di più, esco dalla strada e mi inoltro nel campo. Vento e nessun altro rumore, a parte i campanacci al collo dei due giganti. I bestioni diventano sempre più grossi. Mi hanno visto da tempo, ogni tanto sbattono le orecchie. Sbuffano. Arrivo ad una ventina di metri. Se dovessero partire di corsa non ci sarebbero ripari per me, e non so quanto corra un elefante o che scatto possa avere. Ma lo posso sempre scoprire in un documentario, oppure leggere in un libro, no? Devo proprio sperimentarlo sulle mie cotiche?
Sì.
Devo.
Altrimenti potevo starmene a casa.
Mi avvicino altri cinque metri. Mi accorgo che i pachidermi hanno pesanti catene alle zampe davanti, che ne restringono i passi, rallentandoli in caso di nervosismi improvvisi. Tranquillizzato, mi avvicino lentamente, badando a dove metto i piedi. Gli elefanti non sono gli unici ad abitare questi prati ricchi di pozzanghere e acquitrini, circa un terzo dei serpenti velenosi del pianeta vive qui, e io sono in ciabatte.
Adesso sono fermo, ci guardiamo. I due colossi, bestie da lavoro, sono davvero enormi. Coperti di terra secca e fango, si stanno lentamente avvicinando. Mosche gli girano intorno, e tanti insetti. Uno dei due ha occhi gialli, dalla pupilla piccolissima. L'altro ha teneri occhi scuri, più tranquillizzanti. Si avvicinano ancora. Evito di farmi circondare dai due, mi danno l'impressione che potrebbero schiacciarmi fra loro senza neanche accorgersene. Sono buoni ed erbivori, mi ripeto, ma non mi sento molto tranquillo. Allora guardo a terra, tenendoli d'occhio in modo indiretto, e questi si avvicinano ancora. Quello con gli occhi gialli arriva ad un metro. Mi guarda, muove un orecchio e sbuffa. Alzo lentamente una mano, fino a toccare la proboscide, ruvida, polverosa, coperta di peli assolutamente sgraziati, radi e rigidi. L'elefante emette un ringhio sordo, profondissimo e basso.
Cazzo non sapevo ringhiassero.
Mi si gela il sangue.
Faccio un passo indietro. Un altro. Altri due. Ho i peli ritti e sento freddo. La loro testa enorme è due metri sopra di me. Come altre volte in questo viaggio, mi dò del pirla. Mi allontano controllando terreno e bestione.
Altri dieci passi, i due animali non si muovono. Torno al villaggio cercando di fischiettare, un po' irrigidito e intontito dallo spavento.
Non lo sapevo davvero, che gli elefanti ringhiassero.

DAG

Dopo la pacchia, verso l'interno sconosciuto.

Mi sono divertito, a Dhon Dhet, nonostante non ci fosse la corrente elettrica la vita era facile, tanti ristorantini in cui andare a mangiare, tutti con la terrazza sul Mekong ed un panorama meraviglioso, soprattutto al tramonto, tanta gente con cui parlare o almeno scambiare due chiacchiere, Jun che si è ritrovato a confrontarsi con altri turisti e a dover vincere la sua timidezza, il capodanno laotiano che dava un'atmosfera di festa e l'idea di essere in un posto fricchettone. Eravamo in pantaloncini e torso nudo da mane a sera, e col caldo più atroce, ci si buttava tutti in acqua, nelle morbide correnti del Mekong.
Addirittura alcuni bar con terrazza ti vendevano la birra e ti affittavano grosse camere d'aria da trattore, gonfiate ben bene. Volendo potevi sedertici dentro e berti la birra scivolando con la corrente. L'importante era, a fine corsa, aggrapparsi ad un ramo prima che finisse l'isola e iniziassero le cascate. I sentieri dell'isola, sterrati e senza auto, erano quasi costantemente percorsi da ragazzi e ragazze che camminavano, a piedi nudi e sgocciolanti, per riportare indietro i vuoti e le camere d'aria, tutti sorridenti e un po' brilli.

Ma come tutte le cose belle, anche la vacanzina a Dhon Dhet è finita. Stamattina, dopo quattro giorni di pacchia, sono partito alla volta di uno dei villaggi più remoti del paese, sconosciuto anche a molti Laotiani. Ho salutato Jun, il quale, per darvi un'idea di che persona sia, si è messo a piangere perché andavo via. E cedere alle emozioni per un giapponese è una cosa assolutamente inconsueta. L'ho abbracciato stretto, dicendogli che invece io ero molto contento di liberarmi di lui! Ci siamo messi a ridere.

Poche ore dopo (e pochi chilometri dopo) la scalcagnata carretta con cui ero partito dall'isola, guidata da un autista con un occhio di vetro (quello dal lato della carreggiata) e stipata fino all'impossibile di persone e merci di ogni tipo lasciava me e i miei bagagli ad un incrocio assolato, ripartendo in una nuvola di polvere e gas di scarico.
So che da lì dovrebbe passare un bus che si inoltra nella giungla, fino al villaggio di Pha Pho, territorio di etnie dagli scarsi contatti con il mondo civile e, soprattutto, dalla fauna incontaminata e sovrana.
Chiedo informazioni ai ragazzi che chiacchierano nelle baracche vicine all'incrocio, non sanno neanche cosa sia l'inglese. Non conoscono la parola "bus", per fare un esempio, e quando chiedo "stop?" mi guardano esterrefatti, poi scoppiano a ridere, mentre un bimbetto mi spruzza addosso acqua in continuazione bagnandomi tutto e ripetendo "Pì mai Lào!, Pì mai Lào!" (Buon anno, buon anno!)
Arrivano altri ragazzi per guardare da vicino il falang, che sarei io. Questi un po' di inglese lo sgangherano. Uno mi dice "No bus, moto!" Un altro mi dice che il bus è alle due, no alle quattro. Poi si guardano e, in due decidono di dirmi che il bus è domani, forse.
Ok, è una vecchia tecnica collaudata. Ti dicono che non c'è il bus così ti portano loro ad un prezzo cinque o sei volte più alto di quello del bus. Fermo un trabiccolo con passeggeri a bordo e l'autista mi dice che no, lui non va a Pha Pho, come a dire che non è mica matto, ma che se proprio voglio andarci devo aspettare in un altro punto, che mi indica. Tra un ora o forse due arriva un tràs, (truck) che ci va.
Metto la mia valigia a bordo strada e aspetto.
Miracolo, il tràs arriva, salgo nel cassone dietro, aperto ed esposto al polverone incredibile della strada (strada?) sterrata e tra un rimbalzo ed una botta sulle costole arrivo, dopo venti chilometri circa, al meraviglioso villaggio di Pha Pho.
Il mio ingresso nel villaggio è salutato da bambini entusiasti e da adulti ubriachi per i festeggiamenti del capodanno, per il resto mi sembra di vivere in prima persona la scena del film "Lo chiamavano trinità", quando Terence Hill arriva coperto di polvere al paesello disgustando tutti al solo apparire.

DAG

Al tempio per il nuovo anno.

La ragazzina che ha assegnato le camere a Jun e a me ha solo quattordici anni, ma è sveglia come una di trenta. Anzi, scusate, conoscendo un po' di ragazze intorno ai trenta mi sento di dire che è più sveglia della media delle trentenni che conosco io.
Ha un vocabolario di circa dieci parole di inglese, ma riesce a farsi capire. Dopo averci indicato con ordini precisi le stanze (tu dormi lì, tu dormi là) non si sa in base a quale criterio, si è messa a fare conversazione con Jun, il quale di parole inglesi ne conosce quindici. Non so come, dopo un po' l'ho vista andar via e tornare con un vassoio pieno di pezzi di anguria, tagliati di fresco. Si sono messi in un angolino a parlare, con il manuale di conversazione Giapponese-Lao di Jun. Non so e non voglio sapere di cosa parlassero, ma tra i due è nata una simpatia. Ovviamente per ragioni d'età nulla poteva succedere, ma siamo stati praticamente adottati dalla ragazzina e dalla famiglia di lei, composta da un numero indefinibile -e mai chiarito- di personaggi.
Una delle conseguenze più belle di questa adozione è stato l'invito al tempio per la cerimonia del nuovo anno.
In Laos il capodanno dura tre giorni, durante i quali si celebra anche il "Waterfestival" (cosa che avviene simultaneamente anche in Thailnadia). Nel primo giorno si celebra l'anno passato, riposandosi e bevendo birra Lao (la miglior birra del sud est asiatico, che raccoglie seguaci tra i turisti di ora in ora), nel secondo giorno si celebra il cambiamento, ovvero il passaggio dal vecchio anno al nuovo (andando al tempio e bevendo birra Lao) e nel terzo giorno si festeggia l'arrivo del nuovo anno, tirandosi gran secchiate d'acqua e bevendo (ma va?) birra Lao.
E' nel secondo giorno che siamo andati al tempio con le due ragazzine. Ci avevano dato appuntamento alle tre, e noi alle tre ci siamo fatti trovare pronti per andare al tempio, nonché vestiti bene (sì, io in camicia a righe e braghette a scacchi, ormai ho capito come ci si veste, altroché Armani). "Aspetta" ci dice Cìn, la ragazzina sveglia, "Go mama" e noi siamo andati dalla sua mamma che, tra parentesi, è più giovane di me di due anni. La mamma stava penosamente cercando di tagliare una radice arancione con un machete enorme, mettendo le fettine in un bicchiere. Era un'offerta rituale per il Buddha. Le ho prestato il mio coltellino svizzero, e con quello è riuscita a portare a termine l'impresa conservando tutte e dieci le dita. Abbiamo osservato la preparazione delle offerte con attenzione, senza poter aiutare ma memorizzando tutto. Una volta mescolate le fettine di radice arancione nell'acqua, viene aggiunto succo di limone e una boccetta di solvente prelevata da una scatola di decolorante per capelli. Questa ha il compito di sciogliere la radice e dà anche un buon profumo alla mistura. Altri due secchielli d'acqua con dentro fiori bianchi profumati vengono presi e messi da parte, poi ci vengono messe delle collane di fiori al collo e braccialetti in cotone bianco con una treccina per augurare buona fortuna nel nuovo anno. Così agghindati, distribuiti i bicchieri con la mistura e i secchielli con acqua e fiori, ci incamminiamo alla volta del tempio. Le due ragazzine ridono quando si girano a guardarci, rovesciando circa metà delle offerte durante il cammino a furia di ridere. Jun e io inizialmente siamo seri, tutti compresi nel cammino verso il tempio, poi cominciamo a farci sgambetti a vicenda, gridando allo scandalo quando l'altro rovescia un po' d'acqua per terra. Al tempio diventiamo seri di nuovo quando vediamo la moltitudine di fedeli radunati ad ascoltare le parole del monaco anziano. Tolte le ciabatte, ci uniamo agli altri, saremo stati in tutto trecento persone, tutte assorte nella preghiera, le mani giunte davanti. Finito il sermone, tutti in piedi! Si corre verso un punto in cui giovani monaci distribuiscono pezzi di vetro molto grossi e di vari colori, azzurro, verde, trasparente, giallo, ognuno cerca di prenderne uno, poi si torna ai secchielli portati al tempio, e si strofinano i vetri con foglie di bambù e mezzi limoni tagliati, per pulirli simbolicamente (credo dalla polvere dell'anno vecchio) si sciacqua tutto con acqua abbondante e poi si va a lavare le numerose statue del Buddha che sono state raccolte su un ripiano piastrellato. Sui Buddha si versano anche le misture che ognuno ha portato. Nei pochi minuti passati le misture si sono ossidate e hanno assunto un bellissimo color oro, sembra di versare oro liquido sui Buddha, è il massimo degli onori.
Nel momento dell'"oro colato" avviene qualcosa ce mai mi sarei aspettato. Una anziana signora prende lo slancio e tira una secchiata d'acqua lavando tutti: dai ragazzini ai monaci a qualche turista sopraggiunto con la macchina fotografica. Tutti ridiamo, e inizia una fantastica battaglia collettiva a secchiate, cui partecipano anche i monaci! E' come se dopo la messa di Natale il prete finisse di dire messa e iniziasse a tirare palle di neve a tutti, o come fare a gavettoni in chiesa, tutti contro tutti.
L'acqua è una benedizione, più si è bagnati più si sarà fortunati nel nuovo anno.
Credo che il prossimo anno sarò abbastanza fortunato, ma il più fortunato di tutti sarà Jun. Con la meticolosità e l'ingenuità tipica del giapponese, era venuto al tempio con i pantaloni da pioggia, impermeabili. Soffriva un caldo pazzesco, ma si sentiva al sicuro. "Sono impermeabili! Non mi bagno!" Mi aveva detto quando lo avevo guardato inorridito alla partenza.
Gli ho scostato l'elastico dei pantaloni e gli ho versato una intera secchiata nelle mutande.
Buon anno!

DAG

In mezzo ai laotiani.

Vi ho già detto del bus, di quel viaggio tanto scomodo, ma fatto in mezzo alla gente del posto. E' uno dei desideri di tanti viaggiatori incontrati, quello di poter davvero uscire dal ruolo del turista cui vengono riservate tutte le comodità e condividere con gli abitanti del paese le cose più comuni come uno spostamento in autobus, una cerimonia rituale o il cibo che viene mangiato ogni giorno nel modo in cui lo preparano e lo mangiano loro.
Se per il cibo ci possono essere, purtroppo, riserve dettate dalla prudenza (noi non siamo provvisti degli stessi anticorpi che hanno le popolazioni autoctone, quindi ci possiamo ammalare molto più facilmente di loro) e dal buonsenso, per quanto riguarda la vita di tutti i giorni possiamo tranquillamente unirci ai locali, sempre che questi ce lo permettano. In Thailandia è abbastanza difficile, in Laos è possibile, così come in Vietnam, soprattutto al sud.
Prendere un autobus scassato e scomodo non è soltanto un modo più economico di viaggiare, ma diventa una vera e propria esperienza perché ti fa capire come queste persone, che materialmente non hanno l'accesso a tutte le cose che per noi ormai sono date per scontate, diano profonda importanza all'educazione, alla generosità ed al rispetto reciproco. E fa riflettere su come viviamo noi.
Qualche esempio.
La signora anziana che era salita con la bambina in braccio, quella cui Jun ha ceduto il posto, ha avuto grandi difficoltà, per la prima parte del viaggio, a tenere la bimba, che era in preda ad una crisi di pianto isterico. La pargoletta cacciava strilli così forti che anche il guidatore ad un certo punto si è girato ridendo per chiedere se tutto andasse bene. Ognuno, nel bus, si è prodigato per far smettere le disperate lacrime della bambina: chi la chimava e iniziava a cantare, chi ha regalato un succo di frutta bevuto solo a metà, chi dei dolcini. Jun ha fatto l'origami della cicogna, vabbè, ovvio. La bambina lo ha sbavato subito rendendolo una disgustosa pallina di carta e muco. Ho riso con Jun. Io cercavo di fare come faccio con gli animali per catturare la loro attenzione. Non ve lo dico come faccio, ma con gli animali funziona. Quella bambina aveva un lato animale particolarmente poco sviluppato, perché ogni volta che incrociava il mio sguardo cacciava uno strillo più acuto degli altri e scuoteva la testa disperata. Fortuna che come autostima sono a posto. Comunque poco importa il pianto della bambina, fatto sta che tutti hanno fatto qualcosa per migliorare la situazione della povera nonna. E della bambina isterica.
Il bus popolare, lo chiameremo così, fa parecchie fermate. La maggior parte di queste è fatta al volo, l'autista vede una valigia o due per strada, o una cesta, e capisce che qualcuno le ha messe lì perché deve prendere il bus. Il bus arriva alle valigie, suona e la persona arriva corricchiando. Il ragazzo dei bagagli prende la valigia e mentre il bus riparte si arrampica sul tetto e lega i nuovi bagagli agli altri con cinghie o funi. Ad ogni fermata il bus viene preso d'assalto da ragazze che vendono da mangiare: mezzi polli alla brace tenuti da due stecchi di legno o uova sode, in genere tre in fila, infilzate in un altro stecco di legno. Tutto fatto al momento, a bordo strada, su brace di legno. Un cibo fantastico. I ragazzi che stavano di fianco a me non parlavano inglese, ma due cose sole mi hanno saputo dire: "Can you speak Lao?" (Puoi parlare in Lao?) e "Sorry for the bus" (Ci dispiace per questo bus). Se alla prima domanda ho dovuto rispettosamente dire che no, non parlavo la loro lingua, e me ne scusavo, la seconda frase mi ha fatto una gran tenerezza: capivano che se per loro era il modo usuale di muoversi, per me poteva essere una cosa brutta viaggiare così. Loro si vedono passare davanti agli occhi questi autobus a due piani, di fabbricazione coreana, che vanno spediti e prepotenti, con un'arrogante scritta "VIP BUS" sul parabrezza e immaginano che i "falang", gli stranieri, vogliano viaggiare solo su quei mezzi distanti e condizionati, esclusivi. Che brutto il termine "esclusivo". Davvero ignorante.
Beh, fatto sta che al ragazzo che mi chiede scusa per il bus offro il mio iPod da ascoltare, lui tutto felice si attacca alle cuffiette e ride con gli amici. Poco dopo mi sento bussare sulla spalla, un uovo già sbucciato mi compare davanti alla faccia. E' lui che per ricambiare mi offre un uovo. Lo ha sbucciato per me! Grazie! Gli dico con entusiasmo, e addento l'uovo sodo.
Per fortuna ho notato solo in un secondo momento le unghie del ragazzo. Nere.
Nere come le mie, però.
(Stessa scena dell'uovo mi è successa con due ragazze cui ho regalato una rivista di pettegolezzi laotiana trovata su un altro bus. Dopo aver guardato le figure e aver constatato che siamo tutti attratti dalle stesse morbosità gliel'ho passato: hanno pelato un mandarino e me lo hanno offerto).
Comunque quello che mi è rimasto impresso è il senso di comunità che anima questa gente: non si capisce mai se si conoscono oppure se siano estranei, perché fra loro pare non ci siano filtri: si passano le bottiglie d'acqua l'uno con l'altro, si scambiano da mangiare, si passano addirittura l'uno con l'altro i bambini da tenere in braccio senza nessuna preoccupazione, e se hanno sonno si addormentano uno sulla spalla dell'altro, maschi con maschi, senza paranoie di machismo. Il tutto con un senso di rispetto e pudore che esclude ogni forma di promiscuità o di fraintendimento. A proposito di machismo superato (o mai instauratosi) non è raro vedere ragazzi con le unghie laccate di blu o militari con graziosi cappellini rosa a fiori per proteggersi dal sole.
Certo, le regole dell'educazione sono diverse da quelle che vengono impartite a noi: Le unghie di uomini e donne vengono lasciate crescere lunghe e tenute da conto perché almeno ci si può pulire le orecchie o il naso, cosa che viene fatta in qualsiasi momento e di fronte a chiunque. Tagliarsi le unghie dei piedi dietro al bancone del proprio negozio, mentre si mostra una maglietta o una sciarpa al cliente, è considerata una cosa assolutamente normale, così come sputare per terra dopo aver raschiato ben bene bronchi, polmoni e gola, in un crescendo degno di una moka da dodici. La soffiata di naso avviene con la grazia di un calciatore, due dita a turare una narice, e slancio in avanti al momento giusto, magari appena fuori dal ristorante in cui si sta pranzando gomito a gomito. Stanno mangiando e trovano un osso, o il limone è stato spremuto sino in fondo? Tirano tutto per terra. A fine pasto una discarica di rifiuti viene spazzata da terra da una cameriera sorridente, vien data una passata di spazzola sul tavolo e via! Pronti per il prossimo cliente.
Ho avuto modo di chiedere, parlando con una persona del posto che parlava inglese meglio degli altri, come percepisse gli altri del proprio paese: "Come fratelli", mi ha risposto, ma la chiave di tutto è l'educazione che viene impartita loro sin da piccoli: Il figlio deve rispettare il padre e la madre e le persone anziane, deve addirittura seguire quello che gli dice il fratello o la sorella maggiore. La legge dello stato è una legge da seguire, concetto semplice e diretto.
Mi sembra di aver capito che il concetto di individuo è tenuto in considerazione, ma più ancora quello di collettività.
Poco mi cambia se le regole del bon ton sono diverse dalle nostre, il rispetto che sta alla base è quello che a me piace, soprattutto se si considera che questo, unitamente al modo di vivere buddhista, genera un clima socialmente rilassato, lontano dalla violenza che si vede in altre parti del mondo. Qui molte ragazze viaggiano da sole senza dover temere alcunché. In Turchia meglio non farlo, come dimostrano i recenti fatti.

DAG

Isoletta.

Tre giorni fa sono arrivato nell'estremo sud del paese. Al confine con la Cambogia il Mekong si allarga in un arcipelago, detto "le 4000 isole" o anche la Halong Bay del Mekong, perché ricorda la celebre baia nel nord del Vietnam. Si arriva al villaggio di Dhon Dhet con un pulmino che parte da Pakxé e si ferma nel fango a bordo fiume. Il viaggio procede su una canoa a motore che porta fino all'isoletta su cui si può dormire. Il Lao in questi giorni sta festeggiando il capodanno, per assicurarmi di avere un posto in cui dormire una volta arrivato al villaggio avevo precedentemente telefonato alla guesthouse che mi sembrava facesse al caso mio e ho prenotato una stanza, chiedendo che non ci fosse l'aria condizionata, ma solo il ventilatore, un po' perché odio l'aria condizionata, un po' per risparmiare. "Guarda, qui non abbiamo la corrente, quindi non c'è problema. Non avrai né il ventilatore né l'aria condizionata" mi dice il proprietario. Mi sono sentito un po' pirla, sempre a presupporre che ci siano tutte le comodità. Volevo andare in un posto isolato, primitivo, a contatto con il mondo dei locali? Ecco, ci sono arrivato. Sull'isola esiste un collegamento internet, i computer sono alimentati da un generatore e la linea telefonica è via satellite (così almeno dice il cartello scritto fuori dalla baracca).
I costi sono da satellite, in ogni caso. Cerco di usare internet meno che posso. La ciliegina sulla torta è stata una bottiglia d'acqua che ha deciso di aprirsi nella mia fedelissima borsetta coi cagnolini, bagnando tutto: iPod, portafogli, busta coi soldi, piantine, ma soprattutto il telefonino. Centottanta euro buttati via, il telefonino non si accende più, nemmeno dopo essere stato esposto per due giorni al caldo dei tropici. E soprattutto sono isolato dalle comunicazioni via sms, molto comode. Sono infuriato per questa storia della bottiglia, il telefonino mi faceva anche da videocamera, da sveglia e da orologio. Prima di arrivare in un posto in cui trovarne un altro uguale devo aspettare di essere in Cina. In una città abbastanza grossa.
Ma veniamo agli aspetti più piacevoli del viaggio: nell'isoletta di Dhon Dhet la sera si cena alle sei e mezza, quando comincia a fare buio. La festa di capodanno di ieri è iniziata alle otto, finita alle dieci e mezza. I generatori che producono la corrente necessaria vengono accesi alle sei di sera e cessano di funzionare alle dieci. A quell'ora l'isola sprofonda rapidamente nel buio, diventa territorio degli insetti e degli animali notturni. Intossicato da spray antizanzare e circondato da zampironi fumanti me ne sto ad ascoltare appoggiato alla balaustra in legno del mio terrazzino, in un caldo umido che mi fa sgocciolare in continuazione. Suoni, versi e rumori nuovi ogni minuto giungono alle mie orecchie da lontano o mi sorprendono da pochi metri di distanza. Poi me ne vado a dormire. L'altra notte ero al riparo della mia zanzariera, sul mio giaciglio di legno (scordatevi i materassi) quando un potente scrollone ha fatto ballare tutto. Ho aperto gli occhi, ma era così buio che potevo anche tenerli chiusi. Non c'è la luna, in queste notti, a filtrare tra le assi sconnesse della mia baracca su pali. Mentre mi chiedevo cosa potesse essere, seduto sul letto e sinceramente un po' spaventato (un terremoto?) è arrivato un altro scrollone, più forte del primo. Sono uscito dal bungalow e ho intravisto, alla luce delle stelle, l'enorme schiena grigia di un bufalo che brucava tra i pali della mia casetta sospesa. Ogni tanto, nel girarsi, urtava con un fianco un palo e faceva ballare tutto. Sonori sbuffi dalle froge sembravano esprimere soddisfazione per il pascolo trovato. Sono stato a guardarlo per un po', poi sono tornato, tranquillo, a dormire.
A sudare, anzi.

DAG

Non accalcatevi

Ragazzi, piano, non c e bisogno che mi diate tutti un consiglio, eh?
ALtrimenti non so piu cosa scegliere come soluzione...
Ma ce ne fosse uno che mi ha detto qualcosa su come risolvere il problema del telefonino!
Ora i casi sono due: o il mio blog non lo legge piu nessuno, oppure nessuno sa una cippa di telefonini. Neanche quelli che in Sprea scrivono intere riviste al riguardo.... ehm... vero?
Beh, allora beccactevi questi altri post che vi ho scritto, e se a qualcuno suona il telefonino mentre sta leggendo, lo butti pure nell acqua. Tanto si vive lo stesso, e anche bene!

DAG

lunedì 14 aprile 2008

MESSAGGIO TECNICO

Messaggio tecnico per avvisare tutti che il mio telefonino non funziona piu.
Peccato proprio ora che sono in una delle zone piu isolate dalle comunicazioni!!
Mi si e aperta una bottiglia d acqua nella borsa e il telefonino non si e piu riacceso il modello e un nokia N70. Se qualcuno sapesse come farlo ripartire (l ho gia fatto asciugare per due giorni onde eliminare tutta l umidita interna) mi puo dare un consiglio?
Prima di averne uno che vada bene per me devo aspettare di essere in cina. Chi mi ha mandato messaggi non se la prenda se non rispondo.
Abbracci a tutti!

DAG

domenica 13 aprile 2008

Scomparsa Pippa Bacca.

Riporto qui di seguito la notizia segnalata da Elisabetta a proposito della scomparsa, avvenuta in Turchia, dell`artista Pippa Bacca, amica anche mia.

DAG

Istanbul: appello per l'artista scomparsa sul «Chi l'ha visto?» turco
La sorella e il ragazzo tappezzano Ankara di manifesti

ANKARA - La stazione di servizio della British Petroleum ha l'insegna verde, il suo colore preferito. Pippa si veste soltanto di verde; è color pisello anche il trolley che portava con sé quando è sparita da questo autogrill lungo la E5, la vecchia strada a quattro corsie che da Istanbul va verso Izmit e poi fino ad Ankara.
Giuseppina Pasqualino di Marineo (Cavicchi)
L'ultimo ad averla vista, intorno a mezzogiorno del 31 marzo, è stato uno dei benzinai: «Era ferma all'ingresso del piazzale — ha raccontato —. Ho notato una jeep frenare, fare retromarcia e andare verso di lei». Da allora di Giuseppina Pasqualino di Marineo, 33 anni, in arte Pippa Bacca, non si sa più nulla. È scomparsa mentre faceva l'autostop in abito da sposa undici giorni fa.

Un'eternità. Ma qui, e questa è la buona notizia, la cercano come se fosse viva. «I miei uomini tornano a casa solo il tempo necessario per cambiarsi » assicura Mehmet Tuzel, il capo della polizia di Ankara, che coordina le indagini. Sono giornate grigie e interminabili. Si inseguono voci, segnalazioni, verifiche e smentite. «Era a Dilova, fuori da un ristorante assieme a un barbone », l'avvistamento di una donna resterà senza conferme. «Hanno chiesto un riscatto», ma il falso allarme dura lo spazio di un controllo fatto al telefono. Da Milano la madre di Pippa lancia un appello drammatico: «O è morta o si trova in una situazione tragica. Speriamo sia un rapimento. In ogni caso non può essere scomparsa nel nulla». Credere che nessuno abbia visto qualcosa è difficile. L'autogrill di Bayramoglu, dove si è fermata quella jeep, è poco meno di un suk: ci sono bar, ristoranti, un McDonald's, fermate di pullman e di taxi collettivi, centinaia di viaggiatori in transito. Ci sono anche molte telecamere. Gli investigatori hanno raccolto i filmati. Da quei nastri, e dalle tracce lasciate dal telefono cellulare della giovane artista, forse potrebbero arrivare indicazioni utili. Le ricerche per ora sono concentrate nella zona di Gebze, la città più vicina all'area di servizio. Sui cruscotti delle auto-pattuglia ci sono le foto segnaletiche di Giuseppina Pasqualino. Agenti in borghese fanno domande discrete, per non creare un clima che possa mettere paura a eventuali sequestratori. Il problema è che l'indagine è scattata in ritardo. Dal momento della scomparsa a quando in Italia è stato dato l'allarme sono passati quattro giorni e prima che la polizia turca potesse mobilitarsi ce ne sono voluti circa altrettanti.

Lunedì scorso su Kanal D è andato in onda l'appello del console italiano a Istanbul, Stefano Canzio. Da Roma la Farnesina ha attivato l'Interpol. Sul tavolo del pubblico ministero milanese Ilda Boccassini è arrivata la denuncia presentata dai familiari della giovane. E ad Ankara l'ambasciatore in Turchia Carlo Marsili ha preso contatto con le autorità locali: «Ci siamo rivolti ai più alti livelli di polizia e ministero dell'Interno — spiegava ieri all'Apcom —. Ci hanno assicurato che stanno lavorando al massimo per trovarla. Io posso dire che le forze dell'ordine hanno un controllo capillare del territorio». Il numero di persone scomparse in Turchia non è alto. Purtroppo la regione compresa tra Gebze e Sakarya non è un buon posto per perdersi. Criminalità, traffico di droga, islam militante, immigrazione clandestina: finisce spesso sulle pagine di cronaca nera. Il caso di Pippa qui viene definito «anomalo», ma l'idea che una giovane donna sparisca in questo modo non è facile da digerire per Ankara. E poi l'Italia è un Paese amico. Insomma, di sicuro Giuseppina Pasqualino la stanno cercando sul serio. Finora, però, nessuna notizia. I controlli negli ospedali e negli obitori hanno dato esito negativo. Così restano in piedi tutte le ipotesi: un incidente, il sequestro, oppure una tragedia. Per esorcizzare la paura che lo accompagna da giorni, il terrore che la sua fidanzata sia morta, Giovanni Chiari prova a scherzare: «Se la ritroviamo, la strada per tornare a casa la fa a calci nel sedere».

Da martedì sera Giovanni è in Turchia insieme con Antonietta, una delle quattro sorelle di Pippa. Due giorni fa sono comparsi tutti e due in diretta al programma tv di Lerzan Mutlu, una cosa a metà tra Chi l'ha visto? e uno show di Maria De Filippi. La Mutlu, bionda platinata, chiede aiuto ai telespettatori per risolvere misteri e casi lacrimevoli. Dopo la trasmissione hanno telefonato una dozzina di persone, ma nessuna aveva notizie decisive. Allora Antonietta e Giovanni si sono messi in viaggio assieme a Laleham Karadeniz, la loro interprete. Hanno seguito le tracce di Pippa dalla periferia di Istanbul fino a Gezbe e ancora più in là, lasciandosi dietro una scia di manifesti: la foto di lei che aspetta un passaggio vestita da sposa e un appello. Gruppi di uomini turchi lo leggono, poi salutano con i loro Inshallah. Ieri assieme a Silvia Moro, compagna di Pippa nella performance «spose in viaggio», i ragazzi venuti dall'Italia hanno tappezzato il centro di Ankara. Silvia ha smesso l'abito bianco per non creare confusione e falsi avvistamenti. Ricorda i giorni passati per strada, prima di dividersi per alcune divergenze sulla natura del progetto — forse anche una lite — quando chi le raccoglieva diceva: «Siete due angeli».

Lao

Dieci di aprile, auguri mamma, siamo già alla quarta cittadina del Laos, Pakxé. Le città laotiane sono difficili da capire, per me. Non hanno un centro. Hanno, finora, come elemento comune, la vicinanza con il fiume Mekong, ma questo non vuol dire che sulle sponde del fiume ci sia più vita che da altre parti. Avevo percepito Vientiane come una città di confine, ma l'impressione si è ripetuta poi per tutte le altre città. Thakhet, Savannakhet, ora Pakxé, hanno tutte un qualcosa di provvisorio e di sfuggevole, come se la meta non fosse lì, ma da cercare da qualche altra parte. A Vientiane abbiamo visitato l'arco di trionfo eretto dai francesi al loro ingresso nel paese, a Thakhet niente, siamo partiti il giorno dopo essere arrivati, a Savannakhet il museo dei dinosauri (e quando si va allo zoo o al museo dei dinosauri vuol dire che si sta raschiando il fondo del barile), Pakxé sembra abbastanza vivace, almeno ci sono tre ristoranti tra cui scegliere dove andare a mangiare. A Thakhet neppure quelli, alle otto tutti a nanna, le strade, prive di illuminazione pubblica, diventavano territorio di scorribande degli animali più inconsueti.
Non che mi aspettassi la spumeggiante Copacabana, sia chiaro, ma (tanto per fare un esempio) stasera abbiamo finito di cenare, abbiamo guardato l'orologio ed erano le sette e dieci. Per ingannare il tempo mi sono fatto interrogare in giapponese, Jun mi diceva le frasi in inglese e io dovevo prima capire cosa volesse dirmi e poi ricordarmi come si dice in giapponese. La prima parte era la più difficile se considerate che per il mio amico, tanto per farvi un esempio, "surìppi" per Jun significa "sleep", dormire e "bèsde" "birthday", compleanno.
Rimandato lui in inglese, bocciato io in giapponese.
Mentre vi scrivo Jun è andato a farsi fare un massaggio ai piedi, perché ha letto sulla guida che c'era un centro massaggi vicino alla guesthouse in cui dormiamo. Io ne avevo visto uno, e glielo avevo indicato perché è da tre giorni che dice che vuole un massaggio ai piedi, ma lui ha dovuto cercare quello consigliato dalla sua guida giapponese. Ovviamente era lo stesso. Approfitto della sua assenza e quindi dalla temporanea pausa dai "japanese jokes" per godermi la cosa più lussuosa da quando siamo arrivat in Lao: una terrazza enorme, su cui affacciano le nostre due camere. La terrazza è all'ultimo piano di un edificio interamente gestito da cinesi. Il proprietario ci ha visto uscire dalla guesthouse accanto alla sua scandalizzati per l'esorbitante cifra richiesta: 12 dollari. Ci ha subito sciacallato al collega vicino facendoci segno di dormire con le mani e indicandoci la porta a vetri dietro di sé. Quando abbiamo visto le camere ho contrattato per avere uno sconto. Siamo arrivati a cinque dollari a notte. Abbiamo fatto il gesto di dare i passaporti, ma il proprietario ha detto di no, che non gli interessava. Ha voluto i soldi subito, quelli sì. Non siamo registrati, in questo hotel. Sembra che la presenza cinese stia diventando sempre più forte, man mano che ci si allontana dal confine con la Thailandia. Interi edifici sono arredati con lanterne rosse, piastrelle lucide e vetri blu scuro. Quello è il segnale che i proprietari sono cinesi. Da una parte della strada il ristorante con relativa guesthouse, dall'altra il supernegozio, che vende di tutto, dai cioccolatini ai pneumatici.
I Laotiani, del resto, sembrano accettare senza alcun problema la presenza di altri popoli nel loro territorio: anche noi, i "Falàng" (termine abbastanza dispregiativo che inizialmente stava ad indicare i francesi ma poi si è esteso a tutti gli stranieri) veniamo in contatto con la gente del posto con una facilità nuova, rispetto, per esempio, alla Thailandia.
Lo abbiamo potuto constatare soprattutto nel corso dell'ultimo trasferimento, quello che ci ha portato da Savannakhet a Pakxé.
"Il bus parte alle dieci e mezzo, venite qui alle dieci e fate il biglietto domani", ci aveva detto la bigliettaia. Tre dollari e mezzo mi sembrava un costo francamente un po' basso per un viaggio di sei ore. Il sospetto che il bus non fosse proprio una limousine si stava facendo strada. All'arrivo nella polverosa stazione dei pullman di Savannakhet, il giorno dopo, il sospetto prende pesantemente corpo. Un torpedone cencioso e grondante morchia da ogni crepa rugginosa ci attende nel centro del piazzale, parecchi omini intorno si ingegnano per caricare sul tetto ed assicurare con cinghie e funi d'ogni tipo le merci da trasportare.
L'ultimo bagaglio che viene issato sul tetto è un motorino.
All'interno, dopo la conta dei biglietti, tutti i posti sono già occupati, ma continuano ad arrivare nuovi passeggeri. Ci stipiamo, mi rendo conto che sono in piedi e non ho trovato il mio posto. Sul biglietto ci sono i numeri, ma sui sedili no. Indico il numero del mio posto al ragazzo che controlla i biglietti ma lui fa un gesto vago, circolare, che potrebbe comprendere tutto l'interno del pullman. Volendo anche l'esterno. Un signore trasporta sgabelli. Li distribuisce sorridendo a tutti, ci sediamo nel corridoio, sugli sgabelli, in fila indiana, strettissimi, quando mi accorgo che Jun ha trovato un posto a sedere. Comodo e tranquillo, di fianco ad una ragazza. Come diavolo abbia fatto non lo so, ma mi fa venire il nervoso, perché mi guarda dall'alto in basso e ride, mostrandosi soddisfatto e un po' annoiato.
Vedo una signora anziana salire sul bus, una bimba al collo. La bimba avrà otto mesi, forse un anno. Indico con sguardo pietoso la donna a Jun, e poi lo guardo con disprezzo. Jun cade vittima del proprio buon cuore. Cede il posto all'anziana signora, lui farà il viaggio in piedi. Lo guardo e ridacchio. Tutto sommato uno sgabello non è poi così scomodo.

DAG