mercoledì 9 aprile 2008

L'amico del Sol Levante

Vi ho già detto del mio amico Jun, conosciuto sul treno che mi ha portato in Lao. Ecco, Jun, nonostante abbia la faccia da thailandese, è giapponese, ma così giapponese che più giapponese non si può.
Per darvi un'idea, Jun ha una borsetta con dentro due libri: un prontuario di conversazione giapponese - inglese, corredato dalle frasi più inutili, tipo :"Signorina, credo che il resto che mi ha dato sia in eccesso" (figuriamoci se faccio notare una cosa del genere!) oppure "Dove posso trovare delle garze sterili?" in un paese in cui le aspirine te le vendono sfuse alle bancarelle! Ed una guida turistica del Lao, molto ridotta, ma efficace. Oltre, ovviamente, alla macchina fotografica.
Ogni tanto lo trovo che scruta la guida come se fosse scritta in caratteri sumeri, con un'espressione concentrata fino allo spasmo. Poi punta il dito sopra una foto (generalmente la foto di una pagoda o un tempio) e guardandomi dice: "Biùtifu" E io: "Si, Jun, biùtifu." E lui: "Go?" "Sì, Jun, let's go." E, inforcate le biciclette a noleggio (il motorino no, è "déngelas", dangerous) si va a visitare la pagoda. Quando siamo,lì la prima cosa che dice è :"Foto". E fa una foto.
L'altro giorno stavamo prendendo un caffè seduti ad un tavolino sotto un albero e improvvisamente ha spalancato gli occhi guardando sopra la mia spalla, facendo cenno di non muovermi.
Io mi son spaventato, e che diamine! E gli ho detto "Oh! Che c'è?!!?" non mi ricordo se in inglese o in italiano, ma tanto si capiva lo stesso. Chissà quale insetto schifoso mi stava camminando addosso.
Jun ha aspettato un attimo e poi si è messo a ridere, dicendomi: "Ha ha ha! Japanese joke!" (Ti ho fatto uno scherzo giapponese!). Questo ha dato la stura ad una serie di scherzi atroci e idioti, degni di due minorati mentali durante l'anno del militare, scherzi a turno definiti "italian" e "japanese" joke.
Ma Jun è anche una delle persone più rispettose che io conosca. Nonostante faccia il pugile e guidi i camion per guadagnarsi da vivere (è in Thailandia per studiare la lingua e cercare di trovare un lavoro migliore) è di animo gentile, adora i bambini e gli regala in continuazione l'origami della cicogna. Sa fare solo quello della cicogna. Quando passiamo di fianco ad un gruppo di bambini in uniforme li indica e dice "Sukùru" (School). Ogni tanto si fuma una sigaretta, e gira perennemente con una bustina portacenere per non buttare la cenere o i mozziconi per terra. Quando fuma non cammina perché, dice, può essere pericoloso se urta un bambino con la sigaretta accesa. Non sopporta i prepotenti o quelli che urlano.
L'altra sera eravamo a sentire due ragazzi che suonavano in un locale, un locale alla buona con questi due chitarristi alla buona che senza pietà massacravano i classici della musica folk internazionale. Hanno ucciso un po' di U2, strapazzato Bruce Springsteen e tumefatto Simon and Garfunkel, ad un tavolo vicino al nostro quattro ragazze laotiane. Ad un altro tavolo due ragazzi, un indiano con la barbetta e un cinese alto, ubriachi sino alle ossa, che vociavano sopra il volume generale. Ad un certo punto, quasi inevitabilmente, il cinese comincia a rompere le scatole alle ragazze laotiane. Queste fanno finta di nulla. Quello insiste, ridacchiando. Quelle lo ignorano. Quello ne prende una per un braccio, alzando la voce. Jun e io seguiamo la scena in silenzio. Ad un certo punto Jun si gira verso di me e dice: "Visto? Dà fastidio alle ragazze."
Il cinese si gira e ci guarda. Incrocia lo sguardo di Jun e si mette a ridere cercando la complicità nel mio amico. Jun rimane assolutamente fermo, guardandolo negli occhi, senza muovere un muscolo.
Io sudo freddo. Brutti ricordi mi tornano in mente tutti assieme.
La risata del cinese si spegne, in pochi secondi. Tensione. Jun non si è mosso di un millimetro.
Il cinese abbassa gli occhi.
E anche stavolta è andata.

DAG

Il maître d'hotel

Il Laos, che in realtà si chiama Lao, senza la "s" in fondo, è uno dei paesi più isolati e forse meno visitati rispetto agli altri del sud est asiatico. La Repubblica Democratica del Popolo del Lao, questo il suo nome completo, ha una popolazione che non supera i sette milioni di abitanti e ha un regime socialista moderato, che ha aperto sì al capitalismo, ma con alcune riserve. In Lao non troverete McDonald's o Starbuck's. In Lao molte persone girano con la maglietta di Che Guevara, i pochi che possiedono un'automobile o un fuoristrada ci tengono ad avere sulle fiancate l'effigie del Che oppure di Lenin. Meglio se tutti e due. Alcuni Laotiani parlano spagnolo perché hanno vissuto qualche anno a Cuba, che ha un governo simpatizzante con il governo del Lao, e molti sono quelli che parlano francese. I cartelli e le indicazioni sono in laotiano e in francese, per via della colonizzazione.
Ma i veri protagonisti della vita in Lao non sono gli uomini, sono gli animali. Noto come la terra dal "milione di elefanti", non passa ora senza che il mio amico Jun (questo il nome del pugile giapponese con cui sto viaggiando) ed io non ci fermiamo di fronte ad un lucertolone, o a qualche ragno enorme.
Ieri sera dopo cena abbiamo fatto una passeggiata lungo la via principale del paese (eravamo nel villaggio di Thakhet, nel Lao centrale) e per mezzo metro non andavo a mettere un piede sopra uno scorpione di dodici centimetri che stava fermo a lato della strada. Considerando che giro con le ciabattine (fa un caldo inimmaginabile) camminargli sopra non sarebbe stata un'ottima idea.
Oggi qualcosa mi ha punto sul collo, mentre andavamo col tuc tuc alla stazione degli autobus. Tamponato subito con l'ammoniaca, il dolore è cessato poco dopo, ma i primi istanti era davvero acuto.
Questa sera, dopo una lunga passeggiata nel villaggio di Savannaketh, dove siamo arrivati a metà pomeriggio, entrando nel bagno della mia stanza ho notato, ancora prima di accendere la luce, che c'era qualcosa di strano nella tazza del cesso. Accesa la luce mi sono trovato due occhioni che mi guardavano imploranti: un rospo vi era finito dentro non so come e non riusciva ad uscire dal water. Scivolava, povero. Aiutato con una ciabatta, gli ho messo una bacinella d'acqua sotto il lavandino e ho deciso di adottarlo. Mangerà un po' di zanzare.
Tanto è caotica e frenetica la vita a Bangkok, tanto in Lao i ritmi sono lenti e cadenzati. Quasi tutte le cittadine (Vientiane, la capitale, è poco più che un paesotto) sono cresciute lungo il Mekong. La sponda ovest del fiume, di notte, è piena di luci multicolori. Quella è la Thailandia. Molti laotiani vorrebbero andarvi a vivere, ma si lamentano che passare il confine non è facile. Siamo in una sorta di Tijuana dell'Asia, anche se molto meno pericolosa.
Le condizioni igieniche sono precarie, c'è poco da fidarsi a mangiar carne in giro, anche perché qui non c'è la cultura dei banchini per le strade, i laotiani mangiano in casa, quindi il ricambio del cibo non è così frequente. Scegliamo i ristoranti (se ristoranti si possono chiamare) a naso, ci mancano elementi per valutare davvero cosa è buono e cosa no. Stessa cosa per le guesthouses. Arrivati a Thakhet, per esempio, non sapevamo letteralmente dove andare a dormire. La guida giapponese di Jun indicava tre posti. Due introvabili, uno in costruzione. Arriviamo in un terreno circondato da siepi, con una baracca all'ingresso. Il cartello dice "GUESSHOUSE". Infatti, mi dico. Indovina dov'è l'albergo...
Le stanze non sono poi così malvage, il costo è esorbitante: dieci dollari! Ma non abbiamo scelta. L'Andrea rompipalle comincia a farsi sentire: non è giusto che non ci sia scelta e che non ci facciano nemmeno un barlume di sconto: devo trovare un inghippo. Dieci dollari sono troppi, il mio budget per il Lao è di venti dollari al giorno, imprevisti inclusi!
Nel farmi la doccia scopro che non c'è acqua calda, come promesso dal ragazzo che ci ha registrato. Ecco l'inghippo! Vado e faccio presente la cosa, il ragazzo mi dice che sta arrivando il manager d'hotel. Abbastanza incredulo, sono contento che si stia per palesare una figura professionalmente accreditata con cui relazionarmi. Già pregusto il duello verbale con il maître per ottenere lo sconto.
Il ragazzo mi dice che il maître d'hotel è arrivato. In effetti un motorino tutto scassato si è appena spento davanti all'entrata della baracca. Fa il suo ingresso un tizio dalla camicia lurida, che inciampa, perde una ciabatta e mentre se la rinfila mi guarda in faccia e mi fa un rutto.
Ok, ha già vinto lui, niente duello verbale, immagino. Tutto ha un limite.

DAG

domenica 6 aprile 2008

Inaugurazione e mostra, per voi!!!

Come anche i più insensibili avranno capito, sono molto felice di essere in viaggio e di veder sfilare sotto i miei occhi un intero mondo che non conosco e che mi incuriosisce perché per me è strano e nuovo.
Molte cose nuove, però stanno succedendo anche a Milano, e fra queste ce n'è una che proprio non mi sarei voluto perdere.
E' un evento che avrà inizio il 15 di Aprile, e il mio desiderio sarebbe quello di potervi assistere.
Ma io son qui e non si può avere tutto.
Voi no, voi che state leggendo siete a Milano (la maggior parte, credo) e quindi potete andare a vedere le fotografie di Alessia Montanari, la mia amica e socia, che saranno esposte al Dynamo, glorioso locale di piazza Greco a Milano.
Andate, vi consiglio, la sera dell'inaugurazione, martedì 15 aprile, verso le 21,30. Troverete sicuramente anche Alessia, fate qualche foto dell'evento (giusto così, per affetto) e mandatemele via mail, cosicché possa rendermi conto di quel che mi sto perdendo ma anche sorridere di fronte ad un monitor e vedere un po' di vostre facce. Fatele un abbraccio da parte mia.
Che Alessia sia brava e che le sue immagini siano belle si vede subito; quel che posso dire, lavorando fianco a fianco con lei, è che oltre alla serietà ed al rigore nel metodo di lavoro, come tutti quelli che amano il proprio mestiere, Alessia mette un po' di sé, che lei lo voglia o no, in ogni immagine che produce.
Ed è quello che fa la differenza.

Martedì 15 aprile, Dynamo, piazza Greco 5, Milano, ore 21,30.
Mostra fotografica di Alessia Montanari
www.alessiamontanari.it

DAG

e la locomotiva pareva un mostro strano

Ecco, sono arrivato in Laos! Ieri sera, dopo l'ultimo giro per Bangkok ad assaporare facce, profumi e luoghi mi sono fatto portare alla stazione e sono salito sul night train che mi avrebbe portato al confine. Il treno va a motore, e resta acceso dentro la stazione, per cui tutti i gas di scarico intossicano i passeggeri finché non si esce dalle volte della stazione (un vecchio edificio in stile coloniale) e si prende velocità. L'interno del treno è ristretto ed ingombro di strutture di alluminio, strutture che dovranno sostenere le cuccette. Tutto quello che non è alluminio è dipinto di un bel color verdino. Sembra di stare in un sommergibile, per la mancanza di spazio ed il caldo mostruoso che vi si è accumulato. In questi giorni a Bangkok il caldo non ha fatto che aumentare, arrivando ai 42 gradi e fermandovisi, è il periodo in cui sta per iniziare la stagione delle piogge e perfino i Thailandesi, popolo dalla pelle di ceramica, sudano, anche se con dignità.
Quando partiamo il treno rimane aperto. Presa una certa velocità, idem. Le porte e le finestre del treno non si chiudono mai. Polvere e insetti creano un turbinìo incessante nel vagone, tutto sventola e sbatacchia.
Arriva l'omino che fa i letti. Con una velocità sorprendente abbassa i ripiani, mette le lenzuola, le federe, assicura le cinghie per non volare di sotto a chi dorme al piano di sopra, e mette le tendine per la privacy. Le tendine svolazzano e addio privacy. Mentre ti fa il letto devi andare a sederti da qualcun altro, perché sei senza posto, ed è tutto un inchino e un sorriso e un socializzare con gli altri passeggeri. Immaginatevela in Italia una scena del genere. Immaginate che musi lunghi.
Sdraiato nella mia cuccetta non posso che boccheggiare, il caldo è davvero troppo. Sono tutto sudato, nonostante il turbine d'aria che agita il treno. Il ventilatore attaccato al soffitto, mosso probabilmente da un Isotta Fraschini in grado di far decollare un bombardiere, crea un potente ma inutile flusso d'aria verso il pavimento, aggiungendo turbolenza a tutto il sistema. E rumore al rumore. Cerco di distrarmi con la musica, ma le cuffiette dell'iPod nulla possono contro l'uragano lanciato nella pianura in cui ci troviamo a viaggiare. Incrocio lo sguardo del mio vicino, un ragazzo giapponese che si dispera anche lui per il caldo. Ci mettiamo a ridere come due stupidi per la situazione assurda, e decidiamo di andare nel vagone bar, per mettere un freno alla cosa. Scopro che parla due parole di inglese, è in Thailandia per studiare Thailandese e fa il pugile. E', manco a dirlo, appassionato di fotografia e fotografa tutto ciò che vede. Se sul ring ha la stessa grazia di quando compone le inquadrature allora poveri avversari, non vorrei essere al posto loro. Non è grosso, ma è definito da far paura. Beato lui...
Comunque è amichevole e sorridente, ci beviamo una coca cola. Il vagone bar ha la stessa atmosfera di un ciringuito su una spiaggia tropicale: due casse enormi, degne di un concerto dei Pink Floyd, diffondono musica locale a tutta potenza, le due cameriere in camicetta blu si aggirano tra i tavolini e per richiamare la tua attenzione ti danno uno schiaffo su un braccio, poi si mettono a ridere quando le guardi. Se ordini qualcosa di diverso da una birra ci rimangono male e ti dicono: "No bìa? No?" (No beer?) e ti guardano come se gli stessi facendo un torto. Ci tengono che ti ubriachi sul loro treno, evidentemente, ne fanno un punto d'orgoglio. Penso al Greyhound in America, dove se hanno appena il sospetto che tu abbia bevuto non ti fanno neanche salire.
Jun, questo il nome del pugile giapponese, estrae dalla sua borsetta un pacchetto di fogli colorati e mi guarda mentre lo osservo incuriosito. "Origami", mi dice, e si mette a piegare e ripiegare il foglietto. Ne viene fuori, a smentire la rozzezza delle sue inquadrature, una cicogna perfetta, che mi regala con faccia seria. Prendo la cicogna con tutte le cautele, per evitare che voli fuori dal finestrino, e la guardo tutto contento. Lui mi sorride e dice :"Furèn!" (friends) e io gli ripeto "Furèn, furèn", stringendogli la mano.
Ecco, ho trovato un nuovo amico.

DAG

Il treno nel cielo.

Torno a Bangkok come si potrebbe tornare a casa, me ne rendo conto. Riesco, dopo la prima notte in cui sono completamente scombussolato dalle dodici ore di differenza con gli Stati Uniti, a trovare una stanza nella mia guest house preferita, dove il proprietario si mostra contento che io sia tornato ma mi rimprovera perché non gli ho mandato una mail per avvisarlo. Adesso c'è solo la stanza col ventilatore, quelle con l'aria condizionata sono tutte occupate. Meglio, mi dico, tanto io non uso neanche il ventilatore! A trentacinque gradi riesco a dormire come un angioletto.
Rispondono al mio saluto gli omini del fritto di fianco a casa, le donnine della zuppa, la proprietaria dell'agenzia viaggi. Mi chiedono come sto, dicono che sono contenti di rivedermi.
I compiti principali di questo terzo ed ultimo soggiorno thailandese sono quello di ottenere il visto per la Cina e, poiché ho avuto conferma che il lavoro in Bangladesh dovrà essere rimandato e fatto, ahimé, in Italia, organizzare il viaggio in Laos, mia prossima meta. Altro obiettivo è ristabilire orari e stomaco, che dopo l'America sono sottosopra. A tal proposito mi metto a seguire una dieta morigerata, cerco di dormire quando riesco, se mi sveglio nel cuore della notte non me la prendo e mi metto a leggere. Bangkok è, un po' come New York, la città che non dorme mai, volendo potrei andare in giro a qualsiasi ora, ma preferisco il giorno.
Di giorno posso fotografare la gente sullo skytrain, la metropolitana che corre sopra la città, una specie di treno sospeso che in pochi minuti collega i punti nevralgici della città. La vista dello skytrain e delle poderose strutture in cemento armato che lo sostengono mi affascina, questo serpente che si snoda a quindici, venti metri sopra le teste delle persone, sopra il traffico delle automobili, dei tuc tuc e dei motorini mi ricorda il Naga, il serpente dalle sette teste che protegge il Buddha durante la meditazione. I Thai vanno orgogliosi dello skytrain, e la vita su questi livelli sopraelevati, che in alcuni punti si sdoppiano, si dividono e poi, dopo essersi insinuati fra i grattacieli, si riuniscono, è un brulichìo incessante di persone in entrambi i sensi di marcia, tutti sembrano piccini, veloci.
Dal livello strada saliamo con le scale o con le scale mobili oppure con l'ascensore al primo livello dello skytrain, quello pedonale. Qui possiamo incrociare anche i numerosi passaggi sopraelevati che consentono di attraversare gli incroci e le strade più grosse, cosa non facile, ma soprattutto pericolosa, a Bangkok. Questi percorsi sospesi, sempre coperti per proteggerci dalle piogge monsoniche quando queste arrivano, portano anche direttamente all'interno dei centri commerciali, di cui la città è letteralmente disseminata. Arriviamo ad una parete piena di pulsanti. Ognuno fa il conto di quanto costa il proprio biglietto, paga e in pochi secondi ottiene una tesserina in plastica magnetizzata. Si entra nell'area a pagamento. Poliziotti controllano che il flusso sia costante e aiutano chi ha difficoltà. Saliamo ancora di un livello, andiamo ai binari. Qui possiamo attendere il nostro treno guardando la televisione oppure godendo della vista della città dall'alto, che è quasi sempre quello che faccio io, curiosando fra i ristoranti e i bar oppure godendo della vista dei grattacieli. Alcuni grattacieli, già altissimi di per sé, hanno gru montate sul tetto, verranno innalzati ancora di più.
Arriva il treno e notiamo che le persone si dispongono lungo le linee con le frecce segnate sul pavimento. In mezzo c'è uno spazio vuoto. Quando il treno arriva si ferma esattamente in corrispondenza delle frecce e i passeggeri scendono e percorrono lo spazio vuoto centrale, poi noi saliamo nel vagone. Nessuno supera gli altri, o fa il furbo, o sgomita o si pianta in mezzo. L'aria condizionata dello skytrain è una ghigliottina che secca la gola e ci irrigidisce all'istante. Ecco, forse questo è l'aspetto ancora da calibrare...
Arrivati a destinazione (le fermate vengono annunciate in Thai e in Inglese) non ci resta che riinfilare la tesserina nel cancelletto e andarcene. La tessera, se tutto è andato bene, rimane intrappolata nella macchinetta e verrà riutilizzata e rimagnetizzata un numero indefinito di volte. Il tutto sempre sotto lo sguardo dei poliziotti, che a me è sembrato protettivo e tutelare.
Abbandoniamo il serpente di cemento per tornare sulla terra, in mezzo alle bancarelle, ai vapori di peperoncino, ai tuc tuc, al terreno sconnesso che ci fa tenere d'occhio il nostro tragitto, ai mercanti di strada. Alla Bangkok che non è ancora salita sullo skytrain.

DAG