martedì 11 marzo 2008

One dollar

Lasciare il Vietnam non è stato facile. In tutti i sensi.
Primo perché in un mese (che peraltro è volato) ho sviluppato un affetto molto bello ed autentico con il paese e secondo perché, in pochi giorni di permanenza a Saigon, si è instaurato un legame con la gente del posto che è andato oltre il viaggio da turista. E questo è uno degli scopi del mio viaggio, non essere solo un turista.
A Saigon mi è successo poi di riincontrare alcune delle persone che avevo incrociato nella mia discesa lungo il paese, e ritrovarsi è stata una festa. Tutti viaggiatori "di lungo corso", che sai che faranno più o meno il tuo itinerario, incrociando gli stessi stati, capitando negli stessi posti, chi prima, chi dopo, e allora ti scambi le mail e costruisci una rete di contatti itinerante, dando e ricevendo consigli su visti, guesthouses, ristoranti, tentativi di fregature da cui guardarsi, dando appuntamenti per il piacere di condividere di nuovo qualcosa da un'altra parte, in un'altra città.
Ma ad un certo punto bisogna partire. La compagnia del bus che mi porterà a Phnom Penh, Cambogia, è cambogiana. Le scritte sul bus sono in lingua khmer, non più in vietnamita. Appena saliti sul bus ci vengono date istruzioni sulla procedura per il visto in un inglese precario, ci dicono che saremo tanti al confine e per fare prima l'autista gentilmente si occuperà dei visti per tutti, basta dargli il passaporto e i soldi da lasciare al funzionario, 25 dollari. "Qualcuno ha domande?"
"Io!" -dico alzando la mano, da bravo scolaretto sul bus della gita. "Se la procedura del visto la faccio per conto mio, costa lo stesso venticinque dollari?" - "Sì, certo, costa uguale".
Sapevo che non era così, proprio grazie alla rete di contatti di cui sopra.
Ma il punto non era questo. In Cambogia devo stare pochi giorni e poi rientrare per via del lavoro che mi attende dopo metà marzo negli Stati Uniti (Evviva! di nuovo in South Dakota in mezzo agli indiani!) e volevo informarmi per un visto che consentisse ingressi multipli senza dover pagare tutte le volte la tassa di entrata cambogiana.
Quindi, arrivati al confine, mi dissocio dalla fila dei miei compagni di viaggio ed entro negli uffici con il mio bel passaporto in mano. E vai da un ufficiale all'altro, da una scrivania all'altra, e quello sbuffa perché sta leggendo il giornale, e l'altro mangia la zuppa e non mi dà retta, e gli altri chiacchierano fra loro; sembrava di stare in Italia, in un ufficio pubblico. Alla fine niente ingressi multipli, ottengo un normale visto turistico come gli altri. Ma lo pago venti dollari, non venticinque.
L'ultimo funzionario mi ferma e mi dice se ho l'assicurazione sanitaria. "No" - "La vuoi fare?" -"No, grazie". - "Ok, puoi passare. One dollar, prego".
"Cosa?" - "One dollar".
"Ok, mi dai la ricevuta, però"
"No, niente ricevuta"
Tranquillo gli dico: "Niente ricevuta, niente dollar" e me ne vado, sicuro che mi avrebbero fermato e fiero di essere diventato un rompicoglioni che però non subisce.
Nessuno mi ferma, esco dagli uffici e... sorpresa!
Il bus se n'è andato.
Sole. Caldo. Cicale e polvere. Silenzio.
Il bus se n'è andato con la mia valigia. E non so dove si fermerà in una città che non conosco e che è grande quanto Napoli, ma molto più incasinata e con meno garanzie.
Smarrito, mi guardo intorno e maledico il momento in cui ho deciso di fare il rompicoglioni e uscire dal gruppo.
Senza alcun senso logico, mi incammino per la strada assolata, con lo zaino dell'attrezzatura fotografica in spalla e la mia ridicola borsa coi cagnolini a tracolla, mentre tutti i miei vestiti e i libri se ne vanno nella stiva di un bus chissà dove.
Dopo un chilometro mi si affianca un omino con la moto. "Motorbike? One dollar!"
Sto per mandarlo nel quartiere dove risiedevo a Saigon quando mi viene in mente una osservazione semplice: Perché one dollar? Con un dollaro non si va da nessuna parte, se non molto vicino.
Mi avvicino all'omino e in modo concentrato gli chiedo: "Bus? You know?" - "Yes, yes, mister, bus restaurant!"
Ma certo! La compagnia del bus è cambogiana, è ovvio che non si ferma in territorio vietnamita per la pausa pranzo, loro portano i turisti a mangiare nel ristorante e il ristorante gli dà una percentuale, ma il tutto avviene tra connazionali, quindi appena al di là del confine si fa la pausa pranzo. Logico.
Ok, salto sulla moto e in pochi minuti raggiungiamo il piazzale del ristorante. Bus e compagni di viaggio sono lì. "Mi hai abbandonato al confine" dico tranquillo all'autista (in Asia chi grida è considerato un debole, cosa da esportare assolutamente anche da noi!) e questo si mette a ridere. Per sua fortuna so che quando un asiatico ride vuol dire che è molto imbarazzato, questo lo salva dal vedersi infilate negli occhi le bacchettine con cui sta mangiando.
"Adesso i soldi della moto li paghi tu, one dollar".

domenica 9 marzo 2008

...ancora Saigon...

C'è una battuta, nel film Apocalypse Now, detta da un soldato dell'esercito americano, che rende bene l'idea di questa città. Il soldato, dormendo, sogna di essere a casa, circondato dall'affetto della famiglia e in un ambiente a lui familiare; quando si sveglia, assordato dal costante rumore del traffico vietnamita, guarda fuori dalla finestra della stanza e dice semplicemente :"...Ancora Saigòn..." come se fosse una cosa che non finisce mai.
L'idea è quella, la moltitudine qui è una costante, il rumore della città è un rombo continuo che dopo un po' non viene più percepito ma che in qualche modo rimane dentro, esasperando o esaltando ogni sensazione e ogni stato d'animo.
Saigon non è una città tranquilla.
Ma è bella, finora la più bella tra quelle che ho visto finora. Anche perché a dispetto dei pochi giorni avuti a disposizione per viverla, la mia impressione è stata di appartenere a questa città, cosa mai successa ad Hanoi, per esempio, dove ho passato dieci giorni.
Il Go2 è un bar molto frequentato, sia da occidentali che da vietnamiti, aperto tutto il giorno e la sera fino a mezzanotte, cioè molto tardi per gli standard locali. Nella confusione di questo bar c'è anche un tavolo da bigliardo, a cui sta perennemente attaccato un ragazzo con una malformazione alle gambe. Forse una vittima dell'agente Orange, un simpatico omaggio della guerra che ancora oggi fa nascere bambini deformi.
K'uang, questo il nome del ragazzo, gioca a bigliardo e se si accorge che lo stai guardando ti fa un sorrisone e scambia volentieri qualche battuta. Per spostarsi deve aggrapparsi alle sponde del tavolo, visto che le gambe non lo reggono, ma lo fa molto velocemente. Imposta il tiro, ti guarda, sorride e fa un punto. Dopo un po' batte l'avversario, mai in modo clamoroso. Intasca i soldi e incomincia un'altra partita. K'uang è un professionista del bigliardo, si guadagna da vivere così, depredando gli americani a botte di cinquantamila dòng a partita, circa tre dollari. Saggiamente ogni tanto perde, altrimenti nessuno scommette più con lui.
T'aung è una ragazza di venticinque anni, amica di K'uang, ed è diversa da molte altre viet-girls. T'aung è una pagnottona, davvero cicciotta, dai modi bruschi e piuttosto sgraziati, e anche lei gioca a bigliardo piuttosto bene. Tanto da impartirmi sonore batoste, ecco. T'aung è simpatica, parla un buon inglese, dopo due sere che parlavamo attaccati ad una birra dietro l'altra mi ha detto: domani è il compleanno di mia sorella, mi farebbe piacere che venissi a casa, per festeggiare con la famiglia. "Certo, grazie!" - "Magari canti una canzone con il karaoke anche tu!" - "Ci puoi scommettere!" le rispondo. Già mi vedevo. Ci mettiamo d'accordo per le nove del mattino dopo (alle nove inizia la festa? Io all'asilo almeno le facevo di pomeriggio!) sempre lì al bar, mi sarebbe venuta a prendere in motorino. (Ma va? Anche lei ha un motorino!!) Prima di andare via mi dà una gran pacca in mezzo alla schiena e mi dice: "Ma vestiti bene domani, per favore!"
Ci son rimasto male. Avevo i jeans e una camicia bianca senza collo, abbronzato, avrei fatto bella figura anche al Twiga al tavolo con Briatore, adesso arriva questa zampogna e mi dice di vestirmi bene? Le ho chiesto come.
"Mettiti una camicia normale, come questa qui (e ha indicato un ragazzo che è rimasto stupito) e poi un bel paio di pantaloni corti, non i jeans!"
Ah... capisco.
Il mattino dopo mi presento al bar alle nove, camicia a righe e pantaloncini a scacchi (la classe, lo stile) e un sacchetto con un paio di birre comprate in giro per non arrivare mani vuote.
Lei è arrivata qualche minuto dopo e mi ha detto: "Bene, così vestito vai bene. Devo parlare con mia sorella, aspetta qui un quarto d'ora e prendi un caffè, poi andiamo!"
Non l'ho più vista.
In compenso, dopo un cenno di intesa fra loro, si sono alzati da un tavolino due ragazzi timidi, che mi hanno chiesto se potevano farmi qualche domanda per la scuola. Studiavano inglese e tra i loro compiti c'era quello di conversare con uno straniero che parlasse inglese. Ho accettato, ordinando un tè al miele.
Hanno tirato fuori un foglio con un questionario infinito e un registratore, e iniziato a sparare domande a nastro. E' stato parecchio divertente, perché anche io ho avuto modo di esaurire molte delle curiosità sulla vita in Vietnam e su Saigon, alla fine abbiamo scambiato le mail e mi hanno detto che la prossima volta loro avrebbero volentieri risolto qualsiasi problema io avessi avuto.
Hanno voluto a tutti i costi pagare loro il mio tè.