lunedì 11 febbraio 2008

La stanza del matto

Hanoi, Vietnam. Mi avevano detto che dormire qui costava caro, paragonato agli altri paesi dell'Asia. In effetti, ad una prima ricerca, nulla ho trovato che fosse al di sotto dei diciannove dollari a notte. Ok, colazione inclusa. Stanze che lasciavano parecchio a desiderare, ricavate in edifici costruiti dal regime comunista, soffitti alti, porte grandi, oggetti monumentali, spifferi in proporzione. Ad Hanoi in inverno fa freddo, un freddo umido che ti entra nelle ossa. Soprattutto non c'è mai il sole e questo non aiuta. Nella stanza da diciannove dollari entri e ti trovi la trapunta sul letto, piegata, e il lenzuolo di fianco. Il letto te lo devi fare tu. Ok, va bene.
L'inverno ad Hanoi è freddo, nell'hotel da 19 dollari non c'è riscaldamento. C'è il condizionatore. Rotto.
La mattina dopo la colazione è inclusa, ti trovi ad aver mangiato pane soffiato, burro soffiato e a bere un caffè in una tazza soffiata. Tutte queste cose sono soffiate per soffiare via, appunto, gli insettini che le popolano. E le soffi tu!
Mi sembrava troppo.
Non per le condizioni di stanza né per la popolazione da soffiare via la mattina, ma per i soldi richiesti.
Diciannove dollari a notte mi avrebbero reso povero nel giro di poco tempo, e io non voglio fare ritorno anticipatamente per essermi adagiato nella mollezza orientale. Mi metto in cerca di un altro hotel, passando la mattinata a vagliare guesthouses e ad entrare ed uscire da camere che mi venivano proposte con gesti magnifici dai proprietari o dalle loro mogli. Alla fine trovo quel che fa per me.
Pensione "Darling Café", sette dollari a notte. La mia stanza ha le pareti in formica che ondeggiano pericolosamente se ti ci appoggi, rischiando di farti finire nella camera dei vicini. Non ho finestre, se non una che da sul corridoio. Nel corridoio c'è un'unica finestra, e fa un freddo cane. Tira proprio vento. Non capisco il motivo di questo vento. Mi avvicino e scopro che la finestra del corridoio non ha vetri. La finestra della mia stanza ha delle listarelle di vetro orientabili, con il meccanismo rotto. Ovvero non si chiudono. Nella stanza fa un freddo portentoso, sembra di essere sulle Dolomiti. Una patetica tenda color verde marcio servirebbe ad oscurare la stanza dalla luce che entra dal corridoio, peccato che quando la coppia di vicini giapponesi accende la luce, anche la mia stanza si illumina, perché la luce filtra sopra e sotto le "pareti". Privacy? La giapponese della stanza accanto ha un lievissimo fischio al naso.
Parliamo del letto. Se nell'hotel di lusso il letto te lo dovei fare tu, qui il problema non si pone. Perché tanto non ci sarebbe niente da fare, ovvero il lenzuolo non c'è. Neppure il coprimaterasso. Materasso e trapunta sfilacciata sintetica, pesante come una rete a strascico, di colore previdentemente marrone, con decorazioni beige a confondere.
Le pareti, il soffitto e la porta sono tendenzialmente bianche, non c'è nulla se non qualche sbavo, le viti che assemblano le "pareti" e le piattine della corrente che portano energia all'unica lampada, un tubo al neon azzurrognolo che conferisce all'ambiente un prezioso tocco da ospedale psichiatrico. Vi sto scrivendo da qui, sotto la trapuntona a strascico. Nella mia memoria riecheggiano ancora i commenti di alcuni fra voi: "Che culo, vai al caldo!"
Ho su il berretto di lana...
Ah! Vi parlo del bagno?

DAG

domenica 10 febbraio 2008

un mondo diverso

Esiste il mal d'Asia? So che c'è il mal d'Africa, mio nonno Giuliano me ne parlava spesso, ed è una sensazione di nostalgia (letteralmente il dolore del ritorno, da nòstos = ritorno e àlgos = dolore) che prende in modo inaspettato chi ha avuto modo di passare del tempo in Africa, a contatto con la gente del posto o comunque chi ha avuto esperienze reali al di fuori di un villaggio turistico in Kenia, ad esempio.

Ecco, questa stessa sensazione esiste di fatto anche per l'Asia? Intendo dire, è una cosa comune oppure la provo solo io? Perché adesso che sono qui ho la sensazione di aver lavorato da anni per poter finalmente tornare in questi luoghi, per poter di nuovo passeggiare fra una bancarella e una fermata di autobus, schivando pozzanghere e carrettini che minacciano continuamente il mio percorso, perché a volte, quando passo in mezzo ai vapori di una donna che cucina nel wok sopra un bidone pieno di braci, mi viene la pelle d'oca.

E guardo con ammirazione i ragazzi e le ragazze che si vestono seguendo sì una moda, che sono stravaganti per farsi notare, ma in modo tanto diverso da quello che ho visto in Europa e anche in America del Nord, in un modo che a me non sembra offensivo o aggressivo.

Vi ricordate i cartoni animati dei primi anni ottanta? I personaggi avevano i capelli acconciati in modo assurdo, tutti ciuffi e spari, magari colorati. Ecco, qui tendono a pettinarsi ancora allo stesso modo. E ne vanno fieri! L'estetica del posto fa sì che il tassista sia tutto contento di poter ospitare il suo cliente in un'automobile decorata come una fioriera, magari di un bel fucsia acceso, profumata come una baldracca della Parigi anni venti e con un'aria condizionata in grado di stroncare Armadouk sul colpo. E il loro entusiasmo è talmente genuino che alla fine vieni coinvolto anche tu e superata la differenza di gusti iniziale, gli dai ragione. E capisci che è giusto così. Sarebbe un po' come andare ad Haarlem e vedere tutte le mami in tailleur grigio e con una sobria pietruzza al collo, e qualche anellino discreto. Stonerebbe, no?

Il mal d'Asia, stavamo dicendo. Perché mi viene spontaneo essere attratto da un "ristorante" ricavato dal retro di un'autorimessa, in cui i tavoli sono malconci pianali in formica e le sedie instabili oggetti in plastica, in cui non c'è un piatto uguale all'altro e al posto del tovagliolo ti piazzano al centro del tavolo un bel rotolo di carta igienica? (certo, nell'apposito barattolo).

Perché provo istantanea simpatia per questi posti dai soffitti bassi e l'aria resa irrespirabile dai vapori di peperoncino, affollati di teste chine sulle loro ciotole di zuppa sbrodolante, mentre guardo con compassione la malinconica coppia di tedeschi - maglietta grigina e pappagorgia sudata - mentre aspettano inebetiti dal caldo che gli venga servito il loro sandwich? (Non ho mai visto un asiatico mangiare un sandwich, mi cascassero le orecchie).

Perché? Voglia di imitare? Di essere strano? No, non credo. Forse perché queste abitudini, e il modo in cui prendono la vita le persone del sud est dell'Asia mi sembra sano. Ieri mangiavo, appunto, in uno di questi ristoranti, è arrivato un vecchietto secco secco e dalla pelle scurissima, sicuramente era del sud. Si è messo a mangiare di fronte a me e abbiamo scambiato qualche frase, superando le difficoltà della lingua. Alla fine del pasto mi ha confessato che credeva che vivessi a Bangkok, perché avevo l'aria umile, sicuramente per la morte della sorella del Re (fatto avvenuto in questi giorni).

Gli ho risposto che ero molto rattristato per il luttuoso evento ma che no, ero di passaggio.

Son di passaggio, sì, ma tutto quello che provo qui me lo porto dietro, rimane con me.


DAG