martedì 10 giugno 2008

Il giro di boa.

Non mi sono mai piaciuti più di tanto, i "The Doors". Ma ora, mentre vi scrivo, sto sentendo "This is the end", un pezzo lunghissimo e psichedelico, che fa da colonna sonora anche ad un noto film sulla guerra qui in Vietnam. La guerra americana.
E' un pezzo malinconico, cantilenato, stralunato, che invita a lasciarsi andare. Ed il pensiero a cui mi sto lasciando andare è quello del non voler andare via. Da qui.
Ho la mia stanza, che ogni mattina viene invasa dai profumi delle cucine sulla strada, la routine quotidiana è accompagnata dai richiami dei venditori e dai clacson del vialone dietro casa. Mi lavo, mi vesto bene. Poi inizia la giornata lavorativa, con appuntamenti, giri, visite, pause che utilizzo per studiare, scrivendo ripetutamente sul quaderno le frasi che ho imparato. Mi fermo in un bar o ad un banchino per strada, tiro fuori i quaderni e le penne dalla borsa, prendo appunti sull'ultima conversazione avuta e poi studio un po'. Se ho fame mi mangio un riso o qualcosa.
Magari faccio qualche telefonata, mi organizzo per l'aperitivo, che qui viene fatto sempre a birra, ma al posto delle focaccine e della pasta scotta con i fagioli ti portano frutti di mare e granchi. E noccioline fresche, tenerissime. E non ci sono neppure i fichetti intorno.
Ho un motorino. L'ho affittato per tre dollari al giorno, e una volta entrato nel traffico di Saigòn è passata la paura. Ho scoperto di avere un senso dell'orientamento che in Italia non ho mai avuto, nemmeno a Milano, dove mi sono guadagnato il sarcastico soprannome di tom tom (grazie Ale, sei sempre un tesoro...). Il mio motorino è un Honda Dream, uno dei modelli più venduti nella storia del motociclismo. E' funzionale al massimo, l'estetica non lo sfiora neppure da lontano. E' il tipo di motorino su cui i vietnamiti sono in grado di trasportare di tutto, come vi ho già raccontato. Gli ho fatto il pieno quattro giorni fa. Due dollari. Lo sto usando davvero molto, girando la città in lungo e in largo, e solo oggi dovrò rimetterci altra benzina. Guidare non sembra pericoloso, ma è molto diverso che guidare in Italia o in occidente. Bisogna tenere un'attenzione costante a 360 gradi, perché tutti arrivano da tutte le parti, semaforo verde o no. Non è infrequente incontrare motorini che vanno tranquillamente contromano anche nei viali più grossi. Il vantaggio è che la velocità generale è molto bassa. Il motorino, quando inutilizzato, viene lasciato di fianco ad altri motorini, il casco appeso al manubrio, si tolgono le chiavi come unica precauzione. Per il resto nessuno tocca nulla. Di notte parcheggio nella hall del mio albergo, in cui il custode (un ragazzo che passa la notte, ogni notte, dormendo su un tavolo di vetro) tira giù la serranda alle undici.
"Ma non ti senti solo?" Mi ha chiesto Gregory in chat un po' di tempo fa.
Ieri pomeriggio dopo il lavoro sono andato nel secondo distretto, nel quartiere di Phùc, il mio amico e assistente. Poco dopo siamo andati a prendere l'aperitivo con uno dei suoi migliori amici, che lavora negli uffici della polizia di Saigòn e ha le mani in pasta in molte cose. Phùc ha detto che gli sto simpatico, al suo amico. Abbiamo passto un buon pomeriggio.
Mi vedo quasi ogni giorno con miss Thuy, la manager della galleria in cui espongo le foto, che ormai è diventata mia amica.
Il carrettino delle colazioni è oramai un punto di incontro fisso in cui si svolge una sorta di riunione mattutina. Il carrettino ha l'aspetto rustico quanto basta per tenere lontani i turisti e quindi ci vengono solo occidentali stabiliti qui e vietnamiti. Ci si ritrova più o meno tutti alla stessa ora e un tizio improvvisa una lezione di vietnamita, insegnando cose nuove e pronuncia a me e ad altri occidentali, che solitamente sono professori di inglese oppure curiosi.
Domenica mattina miss Thuy mi ha invitato ad andare in galleria perché c'è luna troupe televisiva che girerà un documentario sulla galleria e sulla fotografia a Saigòn. Vuole che ci sia anche io.
"Alle sette e mezza! Sei contento?" - "Eh, certo che son contento..."
Poi andremo a cena fuori tutti insieme.
No, non mi sento solo.
Certo, il livello delle conversazioni non può essere lo stesso che con i miei amici in Italia, e quello mi manca, ma no, non mi sento solo.
Giro con gli stessi vestiti più o meno da sei mesi, con gli stessi oggetti, pochi. Una delle regole che mi son dato per questo viaggio è stata: se compro per me qualcosa di un certo peso o di un certo ingombro, devo abbandonare qualcosa di pari peso o volume. Così un po' di oggetti sono nuovi, altri non li ho più. Sono semplicemente rimasti in giro, regalati a chi mi stava simpatico. Oppure barattati direttamente al negozio. Tipo la Lonely Planet della Cina e il manualetto di mandarino, allegramente scambiati per alcuni vestiti, portachiavi e altre cose tutte vietnamite. I miei jeans strapazzati e tutti stracciati, (sì, mamma, quelli corti che non potevi sopportare, che mi dicevi "Sembri un barbone") se ne sono rimasti in Lao. Erano Levis originali, il ragazzo cui i ho regalati era tutto felice! La cintura l'ho regalata a Jun, il mio amico giapponese.
Abbiamo bisogno di pochi oggetti. I libri si scambiano che è una bellezza, quindi ho potuto continuare a leggere senza interruzione. Rigorosamente in inglese, però. Se diventasi stanziale, ovvio, incomincerei ad accumulare cose, ma è un processo naturale.
Se dovessi ripartire adesso farei uno zaino molto, molto più piccolo. Ricordo lo zaino di Enrico, l'amico italiano incontrato in Lao, che sarebbe stato via un anno e mezzo. Era un terzo del mio, e conteneva anche un ukulele.
Me lo aveva detto, il caro Enrico.
Attento al quarto mese.
"Perché?" Gli avevo chiesto io - "Il quarto mese è il giro di boa".
Fino al quarto mese si avverte la voglia di tornare, che a volte ci attanaglia come i crampi della fame, poi, al pari della fame, lo stomaco si restringe, e ci si sente a posto. La nostalgia, il ricordo di casa, suscitano sempre piacere, ma si entra in una bolla a parte, si incomincia a sentire una certa paura all'idea di essere catapultati in mezzo alla vita di prima. Come uno che ha fatto una operazione alla faccia e ha voluto farla ma poi ha paura di togliersi le bende e di guardarsi allo specchio. E si sta bene nella situazione nuova, ci si incomincia a costruire legami con i posti, per strada mi saluto con le persone. "Ciao Unréal!" Non riescono a dire Andrea, gli viene fuori Unréal. Irreale.
Buffo, no? Proprio adesso che io mi sento così bene qui, che mi mescolo tanto volentieri con queste persone e con questi odori e con questi posti divento "irreale".
Ricordo che una volta, avevo diciassette anni, mio padre mi disse: "Ero sul tuo autobus, stamattina, mentre andavi a scuola. Ti vedevo da lontano, io ero in fondo e tu eri davanti. Madonna che faccia arrabbiata che avevi!"
Proprio ieri notavo che le persone che incontro qui per strada (locali o occidentali) e con cui incrocio lo sguardo mi fanno un sorriso di rimando. Evidentemente la mia faccia non è la stessa di quando ero in Italia. Anche se a diciassette anni si è sempre un po' incazzati col mondo, è ovvio.
Era per dire che qui io mi sento sorridente.
Ricordo anche una frase di un professore di architettura, in un corso del primo anno: "Voi avete scelto una facoltà difficile, non difficile in sé, magari, ma difficile perché vi chiederà sempre di fare delle scelte, e di sostenerle e portarle avanti. Ricordatevi che dovrete fare scontenti tutti. Se ritenete che la vostra scelta sia giusta."
Tornerò in Italia, perché la mia scelta è quella di tornare e di portare avanti le cose per come le ho impostate qui e non avrebbe senso cancellare tutto il lavoro fatto a Saigòn proprio per stare a Saigòn. Ho stretto contatti che vanno fatti fruttare, e il modo per farli fruttare è far leva dall'Italia, quindi adesso dovrò lavorare da lì. Ma non escludo di tornare presto da queste parti.
E' che quando si tratta di andare via da un posto bello divento sempre un po' malinconico, e mi vien la voglia di lasciarmi andare.

DAG