sabato 3 maggio 2008

La zuppa della fortuna.

Non so a chi lo avevo detto e a chi no, ma ora lo dico a tutti. Sono tornato in Vietnam. Mi par di udire un coro di "E chissene frega" provenire da occidente, lontano lontano.
Vero, riuscirete a dormire lo stesso, ma per me è un cambio di direzione abbastanza significativo. Sarei dovuto andare in Cina, dopo il Lao. Invece ho deciso di no. Ci vado, in Cina, ma più in là.
Le motivazioni che mi hanno spinto a prendere questa decisione sono più di una: la prima è che la Cina ha modificato le regole di accesso al paese, per via dei giochi olimpici. Il visto cinese valeva tre mesi, ed ufficialmente nulla è cambiato, ma ora viene dato il permesso di stare nel paese solo per trenta giorni, dopo di che bisogna uscire. L'alternativa sarebbe quella di chiedere una estensione del visto, pagando e con la quasi certezza di vederselo rifiutare. E siccome ho già comprato il biglietto aereo che mi porterà dalla Cina al Canada (dopo metà giugno) non voglio correre il rischio di dover spostare il volo per un mancato rinnovo del visto. Altro motivo è che la Cina è più costosa del resto del sud est asiatico, e starci due mesi influirebbe pesantemente sulle mie finanze.
Il terzo motivo è assolutamente di pancia, istintivo. L'idea di andare in Cina per due mesi mi faceva stare in apprensione, non so perché. Avevo questa sensazione di disagio, di fastidio anticipato, forse dovuta ai tanti racconti fatti da altri viaggiatori sui cinesi, non proprio positivi, a proposito di tentativi di imbrogli costanti e aggressività e maleducazione diffuse.
Per carità, lungi dal crederci in modo incondizionato, ma ho preferito seguire quel che mi diceva l'istinto.
Così un bel mattino, a Luang Prabang, sono entrato in un'agenzia di viaggi e ho fatto domanda di un nuovo visto per l'amato Vietnam. Subito la sensazione di disagio se n'è andata, lasciando il posto ad un gioioso entusiasmo.
Ho pensato bene di festeggiare con una zuppa.

Mentre mangiavo la zuppa seduto alla bancarella per strada si avvicina un ragazzo cicciotto e con la barba scura. Mi chiede se è buona e io gli dico di sì, che gliela consigliavo. Ci mettiamo a chiacchierare in spagnolo, lui è Sudamericano, e mi racconta che vuole andare in Vietnam, ma non sa bene dove andare. Sullo slancio dell'entusiasmo mi metto a dire ogni bene del Vietnam e dei vietnamiti, consigliandogli un sacco di posti e dicendogli che ne vale davvero la pena. Aggiungo anche che faccio il fotografo e che vorrei tornare là per cercare di lavorare un po', o almeno stringere contatti.
Un terzo ragazzo, asiatico, si è seduto in silenzio e mangia la zuppa anche lui.
Finito il mio monologo sulla bellezza del Vietnam il ragazzo asiatico mi guarda e dice: "Sai molte cose sul Vietnam." "Beh, mi piace molto, in effetti", gli rispondo.
"Ne sai più di me che sono vietnamita".
Lusingato, cerco di dire qualcosa di modesto, ma lui riprende la parola. "Ho sentito che fai il fotografo, che genere di foto fai?"
Glielo spiego.
Mi segue interessato, poi, quando ho finito, mi dice: "Io sono di Saigon, mi farebbe piacere incontrarti. Lavoro per una casa editrice."
Patapamfete! Questa è la dimostrazione che quando te ne va dritta una tutte le altre la seguono a ruota.

DAG

Il fiume silenzioso.

Non c'è solo il Mekong in sud est Asia. Non ci sono solo i grandi fiumi, l'Irrawaddy, il Chao Phraya. Ci sono anche una moltitudine di fiumi che in Italia sarebbero enormi, ma che qui quasi scompaiono di fronte ai colossi d'acqua che attraversano questi paesi, un po' per proporzioni, un po' perché scorrono in zone completamente isolate e senza città di rilievo.
Il Nam Ou è uno di questi fiumi. L'altro giorno Enrico ed io abbiamo deciso di noleggiare un kayak per mezza giornata, pagando ventimila kip, ben tre dollari. Il kayak, una imbarcazione in plastica blu pesante come una petroliera, ha due sedili e due remi in dotazione. Alcuni ragazzi ci avevano detto che si poteva chiedere di essere trasportati oltre le rapide da un'imbarcazione a motore (pagando) e poi discendere lungo il fiume seguendo la corrente e senza far fatica.
"Mai", ci siamo detti, senza il minimo dubbio.
Le rapide erano a trecento metri dal villaggio, subito dopo la prima curva. Il tentativo di andare controcorrente remando, anche mettendocela tutta, è naufragato miseramente. Quasi subito abbiamo capito che non ce l'avremmo fatta, ma non ci siamo persi d'animo. Aggrappandoci ai rami siamo riusciti a portare il kayak sul bordo del fiume. Io (non chiedetemi perché) avevo portato con me una cosa sola: una cima lunga una ventina di metri.
La cima si è rivelata subito utile: abbiamo trascinato il kayak camminando controcorrente, riuscendo quasi subito a superare la parte più dura. Il povero Enrico è finito in una buca fino al collo, ma per fortuna non si è fatto nulla. Passate le rapide ci sentivamo già eroi, e abbiamo proseguito controcorrente, prendendo dimestichezza con l'imbarcazione, con la corrente del fiume (scoprendo che al centro è più forte che in prossimità delle sponde, due vere giovani marmotte!) e con la sincronia dei remi. Ad ogni curva del fiume scoprivamo un paesaggio sempre più primitivo, immerso in un silenzio incantato, silenzio che era sottolineato dai lontani richiami degli uccelli e dal ronzìo di qualche insetto che ci passava vicino. Lo sciaguattìo dei remi era di gran lunga il rumore più forte in tutta la valle, l'aria ferma e il cielo nuvoloso rendevano tutto irreale. Uno stormo di sottili uccelli bianchi stava volando sopra di noi, senza alcun rumore, verso nord. Il paesaggio che ci circondava poteva essere così anche un milione di anni fa, a giudicare dalla tracce lasciate dall'uomo: nessuna.
Più o meno ogni mezz'ora passava una barca col motore scoppiettante. Voltata la prima curva, spariva il rumore e noi tornavamo a guardarci intorno sbalorditi da tutto il verde che ricopriva le montagne intorno e che si rifletteva nell'acqua del fiume.
Sono rimasto conquistato dal silenzio di questa parte di mondo che quasi nessuno ha mai visto ma che è davvero sbalorditiva, che mi ha rimesso fiducia nelle risorse che abbiamo sulla terra.
Abbiamo remato dalle dodici e mezza alle cinque e mezza circa, poi abbiamo deciso di fare ritorno. Contavamo sulla corrente che ci avrebbe fatto prendere velocità, contavamo addirittura di lanciarci nelle rapide e di passarle con il brivido del rischio di andare a sbattere contro qualche roccia, ma la corrente del Nam Ou dev'essere buddhista anche lei, perché è placida e moderata. Giusto vicino alle rapide abbiamo preso un po' di velocità, poi siamo tornati a galleggiare in mezzo allo specchio d'acqua, con un movimento lento e sonnacchioso.
Un angolo di mondo davvero speciale. Il Lao si sta guadagnando il primo posto nella classifica, gente.

DAG

Hirudo medicinalis.

Assieme ad Enrico ho incontrato anche un gruppo di ragazzi provenienti dalla Spagna. Una coppia, lei spagnola e lui vicentino trapiantato (lavorano come camerieri solo per mettere via i soldi per viaggiare) e un tedesco fuggito nel sud della Spagna vent'anni fa, di nome Haiko, capelli lunghi e occhi azzurrissimi, aria da rifugiato.
L'allegra comitiva, costituita da cinque personaggi (la libraia taiwanese è partita per un trekking di due giorni sulle montagne) ha pensato bene di darsi un'organizzazione "ispanica" per dare un senso al proprio soggiorno nel villaggio isolato di Muong Ngoi. La regola è: "Ci vediamo da qualche parte a qualche ora". Il villaggio ha una strada sola, quindi non è un'impresa incontrarsi.
Ci troviamo spesso alla terrazza di Enrico e Haiko. Quello è il nostro covo. La padrona della guesthouse, che tutti chiamano "mama" ci porta, ciondolando, da mangiare o le birre mentre noi, al riparo dalla pioggia scrosciante che è arrivata col monsone, passiamo ore a chiacchierare un po' in tutte le lingue, bevendo birra e fumando le sigarette che fanno ridere.
Il primo giorno siamo andati a fare trekking: un sentiero porta prima alle grotte, poi ad un villaggio ancora più isolato del nostro, in cui pochissimi sono i turisti perché ci si arriva dopo due ore di cammino sotto il sole. Ma le guesthouses sono le più economiche che io abbia mai incontrato: cinquemila kip, ovvero cinquanta centesimi di euro. Per dormire una notte.
Contenti e soddisfatti del primo esperimento di trekking, decidiamo di andare, il giorno seguente, alla ricerca delle altre grotte di cui abbiamo sentito parlare, dall'altra parte del fiume.
Il primo ostacolo si pone subito davanti a noi in modo ovvio: come attraversare il fiume? Un fiume che non ha ponti ed è troppo profondo per essere guadato, soprattutto da chi come noi ha le macchine fotografiche al collo, un fiume percorso da una canoa ogni tanto, primitivo e selvaggio. Dall'altra parte del fiume non ci sono tracce umane, solo boscaglia che diventa foresta fittissima e disabitata. Gli argini color terra ogni tanto si interrompono per formare brevi spiagge, bianche ed assolate.
Fermiamo una barca passeggeri vuota che passava in quel momento, ci facciamo capire a gesti e il pilota ci porta di là dal fiume. Dice che non vuole soldi, ma gli diamo lo stesso mille kip a testa per ringraziarlo. Ci saluta felice e se ne va.
Siamo dall'altra parte ora e cerchiamo un percorso, un sentiero. Io ho il mio bastone da trekking, prezioso per attraversare i rigagnoli senza cadere e scostare la vegetazione spinosa. Sto davanti al gruppo per un po', finché non mi incastro completamente nei cespugli e decido che non c'è strada. Del resto non sappiamo nemmeno dove siano esattamente le grotte che stiamo cercando. Facciamo marcia indietro, mettendoci a ragionare ognuno ad alta voce, tutti in spagnolo, per decidere il da farsi. Adesso guida Haiko, il tedesco spagnolo, che sembra procedere più spedito nel folto dei cespugli.
Enrico ad un certo punto ci dice: "Guardate che stanotte ha piovuto, potrebbero esserci delle sanguisughe". Allo stesso momento capiamo che non c'è speranza di avanzare nella vegetazione, facciamo dietrofront. La ragazza dello spagnolo-vicentino si accorge disgustata di avere due sanguisughe attaccate ad un piede. Poi un'altra e un'altra ancora. Io non ne avevo mai viste, e sono rimasto a guardare un po' schifato questi esseri che si agitavano attaccati alle sue caviglie e lei che non riusciva a staccarli. Poi mi sono accorto che alcune si erano attaccate anche a me. Per fortuna non mi avevano bucato, ma erano dappertutto: sulle scarpe, sulle calze, in pochi secondi si erano infilate dentro alle scarpe e non accennavano a staccarsi.
La sanguisuga (Hirudo medicinalis) è uno degli animali più orrendi e schifosi che popolano la terra. Ha un olfatto evolutissimo e fiuta il sangue a distanza, si muove velocemente facendo ponte tra la testa e il sedere, arcuando e distendendo il suo corpo di vermiciattolo ad anelli, ed è in grado di scatenare le paranoie più ancestrali: ostinata fino alla morte, non molla il colpo finché non viene staccata, se schiacciata a terra si appiattisce e dopo un po', ripresa la forma originale, si dirige nuovamente e spudoratamente verso di noi. Per succhiare il nostro sangue. Sembra invincibile. Nuota perfettamente ed è in grado di stare molto tempo aspettando la propria vittima senza mangiare. Quando si attacca emette due sostanze: un anticoagulante ed un anestetico. Grazie all'anestetico non ci si accorge di avercela addosso. E' in grado di gonfiarsi esageratamente del sangue della propria vittima. Solo il fuoco la uccide.
Ne eravamo pieni. Tutta la distesa di vegetazione che copriva il terreno, bagnata dalle piogge notturne, ci pareva popolata da questi ributtanti e ostinati esserini. Fuggiamo verso una spiaggia, dopo aver deciso che le grotte non ci interessavano più tanto. Rimasti un po' sulla spiaggia assolata e accertato che lì le sanguisughe non sarebbero arrivate a darci noia, comincia a porsi il problema di come fare ritorno al villaggio, dall'altra parte del fiume. Un gruppo di bufali ci guarda incuriosito poco distante.
Riusciamo a chiamare una barca dalla nostra parte del fiume, e chiediamo all'omino quanto vuole. La nostra posizione è debole per contrattare, ed il barcarolo ci chiede una cifra spropositata per un tragitto di tre minuti al massimo, con una barca a motore. Cinquemila kip a testa. Cinquanta centesimi.
Spudorato come una sanguisuga!
Scandalizzati, gli diciamo che vuole decisamente troppo, e decidiamo di mandare sulla barca solo la ragazza che era con noi. Le affidiamo tutti i nostri averi e i nostri vestiti.
Rimasti in mutande non ci resta che una soluzione: attraversare il fiume a nuoto.
Arrivammo stanchi ma felici, come si scriveva nei temi alle elementari.

DAG

Parlo italiano!

Partire da Luang Prabang ha significato per me darmi uno scrollone e ricominciare a viaggiare con la voglia di farlo. Ero arrivato in città con la luna storta, e chi mi conosce sa quanto io possa vedere tutto nero quando ho la luna storta. Forse vedere tutti quei negozi così perfetti, quei ristoranti così artificialmente caratteristici, queste bottegucce finte e a misura di turista mi avevano messo di cattivo umore. Forse era anche la stanchezza accumulata dopo due notti in pullman. Fatto sta che, salutate le ragazzotte finlandesi, bruttine ma davvero simpatiche, mi sono intrufolato in un minivan con altri turisti e sono partito per il nord. Durante il tragitto, durato circa tre ore, nessuno ha parlato, non perché non ci fosse nulla da dire o per mancanza di confidenza, ma perché il furgoncino aveva gli ammortizzatori rotti e c'era il rischio, con tutte le buche, di spaccarsi i denti o mordersi la lingua. Quindi tutti a bocca serrata fino all'arrivo. La corsa è terminata a Nong Kiaw, un villaggio sul fiume Nam Ou. La barca che mi porterà al villaggio successivo, Muong Ngoi, partirà alle due. Nel frattempo decido di mangiare qualcosa al posto poco distante, lasciando ben in vista la mia valigia. Al mio tavolo, scesa dal mio stesso minivan, siede anche una ragazza asiatica, molto taciturna, con gli occhiali ed una camicetta azzurra. Ci presentiamo. Lei è di Taiwan, fa la libraia e si chiama Sling Ping.
Cerco di restare serio quando mi dice come si chiama...
Siamo entrambi diretti al primitivo villaggio di Muong Ngoi, dove staremo qualche giorno. La libraia taiwanese sarà una presenza silenziosa e costante, molto educata come quasi tutti gli asiatici, durante questi giorni al villaggio. Non so cos'è, ma devo suscitare nei viaggiatori asiatici di Giappone, Taiwan e Corea un senso di fiducia, forse li metto a loro agio. Sling Ping, la libraia taiwanese, non fa eccezione. Ci incontriamo alla mattina fuori dai rispettivi bungalows, ci salutiamo cerimoniosamente, andiamo a fare colazione e poi ognuno organizza la propria giornata. Spesso me la ritrovo di fianco mentre passeggio per il villaggio a fare foto. Fa foto anche lei. La sera, al momento di andare a letto, ci salutiamo rispettosamente con un inchino e ci auguriamo la buona notte. Nessuna tentazione, la libraia taiwanese è una cara persona, ma assomiglia tremendamente al mio amico Pol.
Invece una presenza davvero felice è arrivata a dare man forte al mio entusiasmo nel viaggiare (casomai ce ne fosse bisogno).
Sulla barchetta stracolma di gente che andava verso nord, lungo il fiume Nam Ou ho incontrato un italiano. Più di un mese è passato dall'ultima volta che ho parlato italiano per un po' con qualcuno, ed ero negli Stati Uniti.
Mi sono esaltato all'idea di poter parlare nuovamente italiano. Enrico, questo il nome del ragazzo incontrato, sta viaggiando da solo. E' di Milano e fa, anzi, faceva, il consulente finanziario in banca. Il suo progetto è quello di stare via per un po', un anno, un anno e mezzo almeno. Anche se ha trent'anni ha già viaggiato tanto, davvero tanto, rispetto a me e a molti che ho incontrato. Si è fatto il Marocco in motorino, arrivando nel sud fino al confine con la Mauritania e vivendo con le famiglie, ha viaggiato per un anno in India e Nepal, Ha visto l'Australia e altri posti lontani che adesso non ricordo. Ne ha viste di tutti i colori, o quasi, ed è una persona entusiasta ma non è un ingenuo. Quando ha finito i soldi o si è stancato torna in Italia e ricomincia a fare il consulente finanziario. Finora lo hanno sempre assunto, lui dice che è un lavoro palloso ma richiesto. A vederlo sembra che si sia appena tolto giacca e cravatta: capelli in ordine, pizzetto curato, occhiali da ufficio. E', e non potrebbe essere altrimenti per i miei gusti, un bravo ragazzo, educato. In pochi giorni abbiamo legato, scoprendo di avere in molti casi gusti simili. Suona la chitarra ed è dello scorpione. A me fa ridere l'immagine dell'impiegato di banca milanese che molla tutto e scappa per fare un viaggio in posti selvaggi come il Lao, ma lui non ha intenzione di fare quello che viaggia a vita. Parlando è venuto fuori che tutti e due proviamo un po' di tristezza verso quegli uomini intorno ai cinquanta che vedi ogni tanto soli al ristorante in questi posti, la pelle bruciata dal sole dei tropici e gli occhi pieni di rughe. Personaggi che sicuramente hanno avuto una vita avventurosa, che hanno viaggiato tantissimo, "ma con cui non farei a cambio", ci siamo detti quasi in coro. Forse, abbiamo concluso, perché veniamo da una cultura come quella italiana, che vede nel formare una famiglia uno degli obiettivi auspicabili per ogni individuo.
(...)
Se può essere una bella sfida viaggiare da solo e ogni tanto provare il brivido di essere l'unico in cui riporre fiducia, evitando quasi il contatto con gli altri viaggiatori, sembra a volte che questi "viaggiatori fuori corso" vengano tenuti lontani dai gruppi dei ragazzotti in viaggio come me.
Sì, mi do del ragazzotto quando ho quasi quarant'anni, lo so. Fa niente.

DAG

L'Italia vista da qui.

Qualche anno fa fece la sua tappa milanese una mostra fotografica dal titolo "La terra vista dal cielo". Le fotografie, in mostra ventiquattr'ore su ventiquattro lungo via Dante in centro a Milano, raffiguravano numerosi paesaggi, alcuni esotici, altri assolutamente comuni per noi, ma tutti resi insoliti dall'inconsueto punto di vista.
Adesso, da qui, ho l'occasione di assistere allo sguardo degli altri sul nostro paese, ho la possibilità di raccogliere commenti e di registrare opinioni su di noi, gli italiani, da parte di chi vive veramente lontano.
Non posso riportare, purtroppo, nessun commento da parte dei laotiani sull'Italia, visto che nella maggior parte dei casi alla domanda "Chiùsmi, ué iù fò?" (Excuse me, where are you from?) e di fronte alla successiva risposta "Italy!" mi guardano come se avessi emesso un suono nuovo. Alcuni tengono gli occhi fissi nei miei aspettando la risposta vera, altri li abbassano scuotendo la testa.
Non hanno mai sentito parlare dell'Italia. La cosa mi sembra di una tenerezza disarmante, perché né io né loro sappiamo cosa dire, a quel punto.
Altri, viaggiatori, turisti, alla parola "Italy!" (che io pronuncio sempre con entusiasmo) hanno differenti reazioni, a seconda della distanza del loro paese d'origine e, ovviamente, delle esperienze personali.
Un capitolo a parte lo meriterebbero i cugini francesi, con cui, dietro ai sorrisi, è sempre in atto un feroce braccio di ferro. Con alcuni è divertente, con quelli più educati. Alcuni sono anche autoironici, ma solo quelli che han viaggiato di più. Lasciando stare il pietoso argomento della coppa del mondo di pallone, che ormai ha stancato tutti, le abitudini degli italiani sono spesso il fulcro dei commenti da parte dei turisti provenienti dall'estero. Non ho mai dovuto assistere alla pietosa frase "ah Italia mafia pizza mandolino" se non una volta, di fronte ad un attempato americano che voleva fare il simpatico. Gli ho risposto con una sola parola. "Bush". Ha cambiato argomento.
A gennaio, in Tennessee, il mio amico Warren mi ha detto: "Prada is off, gone!" Non capivo. Ha insistito nel dirmi che Prada non c'era più, se n'era andata.
Ho provato a pensare di tutto. Prada ha chiuso? Hanno rapito Prada? Non capivo.
Pace, mi dicevo, niente più accessori costosi o sponsor sulle barche.
Intendeva dire Prodi. Si era confuso. Era caduto il governo Prodi.
Tre ragazze finlandesi con cui sto gironzolando in questi giorni per Luang Prabang mi hanno detto che adesso abbiamo "Burlascone again". Una di loro mi ha dato una pacca sulla spalla.
Ma bisogna dire che in generale noi italiani partiamo da una posizione di simpatia che ci mette in vantaggio rispetto agli altri. Certo, con l'euro così forte gli americani si lamentano e pensano automaticamente che siamo tutti ricchi, ma quelli che son stati in Italia (solito percorso, Venezia Firenze Roma Pompei Sicilia) ne conservano un ricordo meraviglioso. Molti mi guardano stupiti e mi dicono: "Ma parli bene l'inglese!" Abbiamo fama di non saper parlare neanche un po' di inglese. Studiamolo, per favore, ragazzi. Dai, non fatemi fare 'ste figure...

Italian noisy people. Rumorosi. Siamo in grado di fare un casino pazzesco, pare che se in un locale c'è una comitiva di italiani tutti si accorgano immediatamente del simpatico gruppetto. Poi mi fanno l'imitazione degli italiani che si chiamano fra di loro :"Mimmoooooooo, Carmeeelooooooo!" Un dubbio color verde padania si fa strada. Siamo tutti così rumorosi?
"Ah, Milano... non ci sono mai stata", mi dice una bellissima australiana. "Com'è?"
"Meravigliosa", rispondo. Lei continua: "E tu vivi nella città o fuori?" "In città. Vicino alla zona della moda. E della futura Expo."
Non ridete e lasciatemi fare lo scemo con l'australiana, per favore.
La parola "moda" fa brillare gli occhi quasi a tutti.
Un tedesco cerca di incasellare e classificare, mi lancia il commento: "Ma Milano siete freddi, gente di sud è più calorosa e comunicativa, parla di più."
E a me viene sempre in mente un commento uscito durante una serata con la mia amica Paola.
"Vai a Corleone a fare due chiacchiere, se ci riesci."

DAG

La barca mancata.

L'antica capitale del Lao era Luang Prabang, una città ricchissima di pagode, templi e monumenti di grande importanza storica. Si può arrivare a Luang Prabang con l'aereo, con la barca oppure con il bus. Se, come nel mio caso, vi trovate a dodici ore di distanza via terra, vi conviene prendere l'ultimo autobus, la nottata è un po' scomoda, ma risparmiate una notte in albergo e vi troverete la mattina dopo già sul posto, dopo svariate ore di tornanti. Se, sempre come nel mio caso, di nottata nel bus ne avete appena trascorsa una, senza potervi lavare e senza poter mai abbandonare i bagagli durante il giorno, la seconda nottata proverete sulla vostra pelle che è vero che l'essere umano si può adattare a qualsiasi cosa. Due notti e un giorno con un caldo terribile, senza mai potersi cambiare i vestiti, (braghette e maglietta, con camicia di rinforzo contro l'aria condizionata degli autobus) senza mai potersi lavare i denti, mangiando con attenzione e bevendo l'acqua della bottiglia che diventa calda dopo mezz'ora (la temperatura è costantemente al di sopra dei 40 gradi) mi hanno reso una specie di puzzola con le ciabatte, con due piedi neri degni di un homeless e uno strato di polvere color terra che mi ricopre interamente.
Cosa mi ha spinto a fare due notti in pullman, attraversando il paese in fretta e furia, pur di arrivare a Luang Prabang il più rapidamente possibile? Non lo so.
Una specie di inquietudine, una voglia di cambiare aria per vedere una parte nuova del paese.
Inizialmente il programma di viaggio era diverso: una volta arrivato a Vientiane, a metà strada tra il sud e il nord del paese, volevo imbarcarmi sul battello che risale il Mekong e arriva all'antica capitale, che è a nord, dopo un giorno ed una notte di avventurosa navigazione sul fiume.
Nell'intera Vientiane, la capitale, non esiste nessuno che mi sappia dire qualcosa di concreto sul battello che risale il Mekong. Eppure Alessandro, un ragazzo toscano che avevo incontrato in Vietnam, mi ha scritto una mail dicendomi: se puoi prendi la barca, è meraviglioso!
Le agenzie di viaggio, in grado di procurare biglietti per ogni dove da qualsiasi punto del paese, vagolano nel buio dell'incertezza di fronte alle mie richieste di informazioni. Uno addirittura mi ha fatto arrabbiare. "Non esiste nessuna barca sul Mekong". Gli ho detto che un mio amico un mese prima ci era salito e mi ha risposto: "Mi spiace, ma il tuo amico non è corretto con te". "Eh già", gli ho detto, "forse si è sbagliato. O forse si droga?!" "Può essere" mi ha risposto, sinceramente preoccupato. Fantastico.
Alla fine scopro che la barca, detta slow boat (che vi fa immaginare cosa dev'essere, in una nazione in cui il limite di velocità nei centri urbani è trenta all'ora) parte da un villaggio a quindici chilometri dalla città. Chiedo se è possibile telefonare alla compagnia della slow boat, visto che nessuno sa niente. La compagnia non ha telefono. Praticamente non c'è. Un omino raccoglie i soldi prima che la barca parta e ti lascia passare. Altri omini guidano la barca. Quella è la compagnia della slow boat. Nessuno sa quando parte la barca, alcuni mi dicono la mattina presto. Altri cercano di essere più precisi: la mattina molto presto.
Prendo un tuc tuc dopo una contrattazione selvaggia e mi faccio portare al villaggio da cui parte la barca fantasma. Ho con me tutti i miei averi, valigia, zaino e la mitica borsa coi cagnolini.

Il villaggio coincide con l'imbarcadero, uno spiazzo assolato con cani randagi e pulciosi, un baraccotto con dentro un funzionario sonnacchioso che a qualsiasi mia domanda risponde "No" e due poliziotte nella tipica divisa verde laotiana. Dico al funzionario che vado in fondo al piazzale per chiedere informazioni, faccio cenno alle mie valigie, dicendogli: "Le lascio lì, posso?" "No". "Ok, grazie". Le lascio lo stesso e mi avvio. Le due poliziotte mi si avvicinano, sorridenti. Noto che sono più giovani di me. Una mi chiede in un inglese traballante se mi possono aiutare, le spiego che volevo prendere la prima slow boat per andare a nord e loro mi spiegano che quella di oggi era già partita la mattina molto presto "Quando?" cerco di indagare io e lei mi risponde "Si" (è una congiura?) e poi mi fa capire che la barca non ci sarà neanche l'indomani perché è domenica. Inoltre la barca non arriva a Luang Prabang, ma fino ad un altra città e poi devo prendere il bus. Quanto è distante questa città da Luang Prabang? "Non lo so". Chiedo se nell'ufficio della polizia lì vicino, in cui loro lavorano, c'è una mappa del Lao." No", mi rispondono. "Non ce l'abbiamo, ci dispiace". Sulla mia mappa questa città non è segnata. Praticamente dovrei passare un giorno e due notti in questa gabbia di matti che è il villaggio-imbarcadero, per prendere un battello che non so quando parte e dove arriva.
La poliziotta con cui parlo nota il mio dispiacere, mi guarda negli occhi e sembra capire, poi furtivamente mi indica un gruppo di persone in fondo al piazzale e se ne va agitando la mano a significare: "Io non ti ho detto niente".
Mentre mi dirigo verso il drappello di malconci figuri in fondo al piazzale qualcosa mi suona strano, non sembrano i soliti laotiani. Mi giro e dò un'occhiata alle valigie. Sono ancora là, di fianco al baraccotto di mister No.
Il gruppo a cui mi avvicino gioca rumorosamente intorno ad un tavolo. Chi è a torso nudo sfoggia tatuaggi che ricoprono mezza schiena, o un braccio intero. Capelli lunghi e risate sguaiate. Stanno giocando ad una specie di dama. Le pedine sono tappi di birra Lao, mazzette di banconote sono appoggiate di fianco alla scacchiera.
Qualcuno mi nota, individuo subito il capo della banda, canottiera gialla, cappellino da baseball e sigaretta in mano. Lo saluto in laotiano: "Sabaidee", molto educatamente. Tutti o quasi ridono, alcuni ripetendo "Sabaidee!" in tono canzonatorio. Contrabbandieri. Gente che fa la spola tra la Thailandia e il Lao portando di tutto, compresi oppio e marijuhana (assolutamente vietati in Thailandia) ma che qui viene offerta per le strade, gente che ha messo in piedi un sistema di trasporto alternativo e molto lucroso: la speed boat.

Sulla Lonely Planet, come su molte altre guide, viene detto chiaramente: se prendete la speed boat lo fate esclusivamente a vostro rischio e pericolo. In Lao ultimamente la speed boat è stata vietata. Troppi morti, e quando i morti sono turisti stranieri meglio essere drastici. Le acque del Mekong sono piene di tronchi vaganti e di rocce che affiorano, soprattutto in questa stagione, in cui il fiume è ai livelli minimi. Urtare un tronco o una roccia alla velocità della speed boat significa schizzare per aria e lasciarci le penne.
Per darvi un'idea del mezzo: Io sarei arrivato percorrendo il Mekong solo fino a metà strada in un giorno e una notte. La speed boat mi avrebbe portato a destinazione completa, Luang Prabang, in tre ore.
Rinforzo il concetto: in un paese in cui il casco non è obbligatorio, neanche sulle moto più grosse, i piloti delle speed boat fanno indossare il casco integrale ad ognuno dei passeggeri. Durante le tre ore di "navigazione" non ci si ferma mai, non si può sollevare la testa perché si viaggia sdraiati a pancia in giù e i bagagli fanno da ammortizzatori tra i passeggeri e il fondo della barca. Del missile, anzi.
Ho chiesto al capo della banda quanto mi sarebbe costato, giusto per curiosità. Ha scarabocchiato qualcosa su un foglio poi me lo ha passato. 400 dollari. "EEEH?" Mi son messo a ridere. "Con 400 dollari ti compro la barca!" gli ho risposto. "Non credo" mi ha detto lui piantato di fronte a me a gambe larghe, mento all'insù e occhi a fessura. "Fammela vedere" gli ho detto io, in tono di sfida e aggiungendo un rutto, così, per facilitare la comunicazione e metterlo a suo agio.
Si è sporto dalla balaustra in bambù e ha guardato in basso, invitandomi a fare lo stesso.
Sono rimasto senza parole. Una scheggia, larga non più di cinquanta centimetri, era ormeggiata sotto di me, al riparo di alcuni cespugli. La scheggia sarà stata lunga quattro metri, e terminava con una punta lunga e acuta. A poppa, circondato da un groviglio di tubature e cavi, un mostruoso motore assolutamente sproporzionato sembrava essere stato posato sulla esile imbarcazione quasi per scherzo, più per farla affondare che per muoverla. La poppa della speed boat è sotto il livello dell'acqua, quando la barca è ferma, per il peso del motore. Sembrava la cosa più lontana dal concetto di barca che io avessi mai visto.
Mai e poi mai mi affiderei ad una cosa del genere.
Non fatelo, se dovesse capitarvi l'occasione, anche perché in questo modo si perderebbe il piacere di vedere il paese dal punto di vista di chi naviga il fiume. Dalla speed boat non ci si gode certo il paesaggio!
Ripresi i bagagli, sono andato alla stazione degli autobus, e mi son rassegnato ad arrivare a Luang Prabang via terra.
Ieri, con un banale tour organizzato, sono andato a vedere le grotte "dei seimila Buddha" sul Mekong. Da bravi turisti si prende la barchetta e si va verso le grotte in un'ora di sonnolenta navigazione, col motore che borbotta. Ad un certo punto un urlo lontano ha fatto voltare tutti. Tempo di girarsi e l'urlo era già di fianco a noi, un urlo meccanico. Una speed boat ci era appena passata di fianco a tutta velocità. Quando il muro d'acqua sollevato dal motore è ricaduto spruzzandoci tutti la speed boat era già lontana, il folle urlo meccanico la seguiva.

DAG

Villaggi sperduti 2.

La televisione è arrivata solo in parte a rovinare questi posti, la si può vedere solo di sera quando c'è la corrente. Spesso si riesce a prendere solo un canale thailandese, oppure un canale laotiano che trasmette video musicali. Quasi tutti i video musicali sono accompagnati dal testo scritto della canzone e le ragazze si divertono, appena ne hanno la possibilità, a prendere un microfono in mano e cantare seguendo le parole. Questo viene fatto in compagnia o anche quando sono da sole. Dev'essere una cosa che le rilassa o le diverte molto. Se vengono sorprese si vergognano e ridono, ma non per questo smettono.
Il video musicale, legato all'idea di karaoke, ha in Asia una diffusione enorme. Di solito la canzone è melodica, parla di un amore triste che poi finisce bene. Le situazioni ritraggono la vita comune di questi posti: Lui fa il meccanico e la pensa sognante, lei lavora in ufficio e non può rispondere alle telefonate di lui perché il capo la vessa, lui pensa che lei non lo ami più e si dispera. Va sotto casa di lei mentre imperversa il diluvio (nelle scene tristi c'è sempre la pioggia) e vede che lei non c'è. Disperato, cade in ginocchio incurante dell'acquazzone che lo bagna tutto e si dispera ancora di più. Poi lei arriva dall'ufficio in bicicletta, lo vede, lascia cadere la bici e corre ad abbracciarlo. II video sfuma con loro che si guardano felici.
Ma torniamo allo sterrato paesino, pieno di polli e bambini.
E' inevitabile seguire i ritmi del villaggio in cui ci si trova, perché una volta calate le tenebre, ovvero quando l'ultimo generatore si è spento, la cosa migliore da fare è andare a letto, ben protetti dalla zanzariera. Andare in giro per il paese con una torcia accesa significherebbe attirare i milioni e milioni di insetti in cerca di una sorgente di luce. E siccome alcuni arrivano con la grazia di una sassata il piacere di una romantica passeggiata passerebbe in secondo piano. Oltre al dubbio piacere di passeggiare in un paesino in cui nessuno è più in giro per strada, solo i cani randagi.
In questi villaggi la gente si sveglia la mattina presto e si alza col sole, che quasi sempre è nascosto dietro una spessa bruma dovuta all'umidità notturna.
Io pure mi alzo presto, perché la sera vado a letto alle nove.
Accesi i fuochi e cominciata a scaldare l'acqua per fare la zuppa, parte la processione dei monaci che fanno la questua di casa in casa, con la ciotola per raccogliere il riso. Quasi tutte le case del paese offrono qualcosa, soprattutto riso, poi si mangia. Nel villaggio di Pha Pho ogni famiglia mangia nel cortile di casa propria, a Mouong Ngoi vengono allestiti tavolini lungo la strada sterrata che divide il villaggio in due e la gente mangia sulle panche, gomito a gomito. Giovani, anziani, studenti con l'impeccabile camicia bianca e muratori a torso nudo dalla pelle scura e i capelli impolverati, ragazze dall'aspetto giovanissimo che mangiano la zuppa mentre allattano il figlio, la camicetta alzata quanto basta per permettere l'allattamento. La donnina che ha fatto la zuppa la distribuisce in porzioni e impila le ciotole da lavare. Periodicamente la figlia prende la cesta con le stoviglie, va al fiume, lava e torna su.
Le attività della giornata occupano ciascuno degli abitanti del villaggio. L'attività non è frenetica ma è costante, fino alle otto di sera circa. Una buona parte della giornata viene utilizzata per conversare. La sera dopo cena (i laotiani cenano verso le cinque e mezza) gli uomini giocano a carte e bevono lao lao, il whisky locale, a metà strada fra la tequila e la senza piombo con pochi ottani.
I rapporti con noi, i falàng, sono molto distesi, anche se incentrati sulla enorme curiosità che suscitiamo nei locali. Ci studiano con curiosità da entomologi. A Pha Pho un ragazzo mi ha pizzicato i peli delle gambe e mi ha guardato con stupore, poi ha alzato il pollice e con ammirazione ha detto: "Gùs!" (Good!) per significarmi che apprezzava che io avessi i peli sulle gambe. Lo stesso tipo di curiosità lo ha avuto una ragazza in un altro villaggio. Mi ha scostato la camicia davanti e ha guardato sul petto. Poi ha fatto un commento con le amiche del tipo: "Quanti peli!" e tutti siamo scoppiati a ridere. Non hanno inibizioni nel contatto fisico, ma neppure lo fanno con intenti maliziosi o sessuali. Ci studiano, ecco tutto.
Calano le tenebre e le persone che camminano per il paese sono sempre di meno. Tutti, nel paese, sono in grado di camminare al buio, conoscono ogni pietra del posto. Se da lontano si vede una luce che si sposta, quello è un turista.
Le ore della notte sono dominate da presenze in movimento: rumori, ronzii, ticchettii, a volte tonfi di qualcosa che cade dall'albero sul tetto in lamiera. In questi villaggetti è meglio prendere sistemazioni in legno, non troppo protette dalla luce del giorno. Animali selvatici o insetti potrebbero sentirsi troppo protetti da una stanza in cemento e farvi la tana.

DAG

Villaggi sperduti 1.

Il Lao può davvero essere davvero un posto speciale. Se ad una prima impressione può sembrare che non ci sia granché da vedere o da fare, quando si arriva nei centri più isolati si capisce che quella è la vera parte preziosa del paese.
Si esce dal percorso che collega una città all'altra e le strade diventano subito sterrate; le case, quasi sempre piccolissime, hanno pareti di bambù intrecciato e tetti di paglia, sono sorrette da pali in legno e spesso appaiono tragicamente storte.
Polli, maiali e cani circondano la casa, bufali percorrono le vie del paese (quasi sempre una sola) e una miriade di bambini, vestiti, nudi, vestiti a metà, si rincorrono dentro e fuori abitazioni e cortili, si fermano a guardarci, due o più dita infangate in bocca; si vede che suscitiamo domande nei loro giovani cervelli. Le donne anziane camminano con cautela, un piede messo davanti all'altro con circospezione, a volte curve in modo estremo per gli anni di lavoro nelle risaie. Ci vedono, alzano la testa verso di noi e sorridenti la scuotono su e giù. Non gli serve l'inglese, aprono la bocca sdentata ma non emettono nessun suono, gli occhietti vispi parlano al posto loro. Ci seguono con gli occhi per un po', poi se ne vanno per la loro strada. I ragazzini sono fonte costante di saluti e richiami al nostro indirizzo. Giocano. Con poco. Una tanica legata ad uno spago è una macchinina da corsa, la palla di vimini intrecciato e il bastone per spingere una ruota sono i giocattoli più comuni. Ci vedono passare davanti alla casa e ci salutano, gli rispondiamo: "Sabaidee". Poi arrivano altri che ci salutano e vogliono essere salutati anche loro. Poi altri che erano in casa si affacciano, scoprono la novità entusiasmante del "falàng" che sta passando e corrono fuori per fare lo stesso, in un crescendo di strilli e risate.
I ragazzi e la ragazze più grandi, invece, hanno sviluppato, ovviamente, alcune inibizioni sociali in più, ma non molte. Se da un lato è bello sapere che c'è una parte del mondo in cui le ragazze ti salutano con un sorriso anche se non ti hanno mai visto, è interessante vedere come i gruppi di ragazzi intorno ai sedici - vent'anni ti guardino seri, seguendoti con lo sguardo torvo, tutti fieri nelle loro magliette con i teschi e le scritte più cattive e fosforescenti o dorate, ma poi si aprano anche loro in un saluto educato e sorridente quando gli rivolgiamo il nostro buongiorno.
L'altro giorno una ragazza poco distante da noi si è accucciata in un prato e ha fatto pipì, incurante di poter essere vista. In alcuni villaggi al nord gli uomini fanno la doccia nudi e all'aperto. Le donne del villaggio di solito, appena prima del tramonto, vanno a lavare i panni al fiume, poi si insaponano e si lavano slacciando la stoffa con cui si coprono solitamente e che fa loro da gonna.
Gli uomini pescano e si lavano (o lavano i panni anche loro) accanto alle donne. Tutti vivono a stretto contatto con il fiume, ma nessuno ha un costume da bagno. Gli uomini che pescano o lavorano nel fiume passano la giornata in mutande. Hanno questi slip in cotone che usano come costume da bagno. Con l'acqua la mutanda diventa molle, se casca la tirano sù, senza farsi troppi problemi e senza malizia nei gesti o negli sguardi.
Nel villaggio di Muong Ngoi la vita scorre tranquilla, i viaggiatori che arrivano qui cercano esattamente questo tipo di atmosfera, la speranza è che il posto non cambi. Non tanto in fretta, almeno.
Una costante, assurda e triste allo stesso tempo, è data dalla presenza di enormi bombe esplose lungo le strade dei villaggi. Pensare che questi posti, i più pacifici e simpatici che io abbia mai visto in vita mia, siano stati bombardati, e con bombe così grosse, mi sembra una cosa totalmente assurda e barbaramente insensata.
Gli abitanti di Muong Ngoi hanno riutilizzato le bombe nel modo più saggio e disincantato: come pareti di contenimento delle aiuole, come decorazione degli ingressi ai cortili delle case. Una mezza bomba era utilizzata come vaso: era piena di fiori.
Il posto in cui vado a mangiare (non mi sento di chiamarlo ristorante) è costituito da una panca lunga e da un tavolo messi al riparo di una tettoia in bambù. In fondo al tavolo, per terra, ci sono i fuochi, vasi di terracotta con le braci di legna sempre accese. A lato sta il tavolo per cucinare, sotto il tavolo, per terra, cipolle, patate, cavoli. Appesi alla parete in bambù, annerita dal fumo delle braci, stanno coltelli e pesci arrostiti o seccati al sole. La donnina che vi lavora di giorno e vi dorme di notte con la famiglia è in miniatura, in scala con il posto. Ogni tanto scaccia i polli o le papere che razzolano tra i piedi dei commensali. Quando un cane si infiltra fra le papere, affamato, la donnina lo scaccia e poi ride, vedendo che seguiamo la scena.
L'altro giorno, prima di partire ho chiesto alla donnina il riso col pollo. "Aspetta un attimo" mi ha detto, ed è sparita dietro alla parete di bambù. Avevo un po' fretta perché la mia barca sarebbe partita poco dopo. La donnina non torna, a me viene il sospetto di cosa stia facendo.Riappare dopo venti minuti circa, un po' trafelata. "Scusa", mi dice. "No pollo. Il pollo mi è scappato e non te lo posso cucinare. Non son più riuscita a riprenderlo. Vuoi il riso col cavolo? E' buono!" Trovo la cosa fantastica e cercando di restare serio le dico che va bene, mi piace il riso col cavolo. Spero che il cavolo non scappi. Mentre la donnina cucina penso al povero pollo, allo spavento che dev'essersi preso e rido da solo, seduto al nanotavolo. Mi sembra tutto assurdo e bellissimo insieme.
Ma il momento di partire si avvicina. Non ho il tempo di mangiarlo, il mio riso. Nessun problema, la donna capisce, rovescia il contenuto del mio piatto in un sacchetto di plastica qualsiasi, lo annoda e me lo da. Parto col mio sacchettino bello caldo in mano, lo mangerò lungo il tragitto in barca, con le mie bacchette personali.

DAG

Il ringhio dell'elefante.

Non so come dirvelo. Ve lo dico e basta, facciamo così.
Parlando con gente che ha avuto molte esperienze con gli elefanti ho scoperto che quando un elefante emette il verso che tanto mi ha spaventato vuol dire che è contento.
Un po' come fare le fusa per il gatto.
Solo che è un gatto di sei tonnellate.

No comment, please.

DAG