sabato 3 maggio 2008

Villaggi sperduti 1.

Il Lao può davvero essere davvero un posto speciale. Se ad una prima impressione può sembrare che non ci sia granché da vedere o da fare, quando si arriva nei centri più isolati si capisce che quella è la vera parte preziosa del paese.
Si esce dal percorso che collega una città all'altra e le strade diventano subito sterrate; le case, quasi sempre piccolissime, hanno pareti di bambù intrecciato e tetti di paglia, sono sorrette da pali in legno e spesso appaiono tragicamente storte.
Polli, maiali e cani circondano la casa, bufali percorrono le vie del paese (quasi sempre una sola) e una miriade di bambini, vestiti, nudi, vestiti a metà, si rincorrono dentro e fuori abitazioni e cortili, si fermano a guardarci, due o più dita infangate in bocca; si vede che suscitiamo domande nei loro giovani cervelli. Le donne anziane camminano con cautela, un piede messo davanti all'altro con circospezione, a volte curve in modo estremo per gli anni di lavoro nelle risaie. Ci vedono, alzano la testa verso di noi e sorridenti la scuotono su e giù. Non gli serve l'inglese, aprono la bocca sdentata ma non emettono nessun suono, gli occhietti vispi parlano al posto loro. Ci seguono con gli occhi per un po', poi se ne vanno per la loro strada. I ragazzini sono fonte costante di saluti e richiami al nostro indirizzo. Giocano. Con poco. Una tanica legata ad uno spago è una macchinina da corsa, la palla di vimini intrecciato e il bastone per spingere una ruota sono i giocattoli più comuni. Ci vedono passare davanti alla casa e ci salutano, gli rispondiamo: "Sabaidee". Poi arrivano altri che ci salutano e vogliono essere salutati anche loro. Poi altri che erano in casa si affacciano, scoprono la novità entusiasmante del "falàng" che sta passando e corrono fuori per fare lo stesso, in un crescendo di strilli e risate.
I ragazzi e la ragazze più grandi, invece, hanno sviluppato, ovviamente, alcune inibizioni sociali in più, ma non molte. Se da un lato è bello sapere che c'è una parte del mondo in cui le ragazze ti salutano con un sorriso anche se non ti hanno mai visto, è interessante vedere come i gruppi di ragazzi intorno ai sedici - vent'anni ti guardino seri, seguendoti con lo sguardo torvo, tutti fieri nelle loro magliette con i teschi e le scritte più cattive e fosforescenti o dorate, ma poi si aprano anche loro in un saluto educato e sorridente quando gli rivolgiamo il nostro buongiorno.
L'altro giorno una ragazza poco distante da noi si è accucciata in un prato e ha fatto pipì, incurante di poter essere vista. In alcuni villaggi al nord gli uomini fanno la doccia nudi e all'aperto. Le donne del villaggio di solito, appena prima del tramonto, vanno a lavare i panni al fiume, poi si insaponano e si lavano slacciando la stoffa con cui si coprono solitamente e che fa loro da gonna.
Gli uomini pescano e si lavano (o lavano i panni anche loro) accanto alle donne. Tutti vivono a stretto contatto con il fiume, ma nessuno ha un costume da bagno. Gli uomini che pescano o lavorano nel fiume passano la giornata in mutande. Hanno questi slip in cotone che usano come costume da bagno. Con l'acqua la mutanda diventa molle, se casca la tirano sù, senza farsi troppi problemi e senza malizia nei gesti o negli sguardi.
Nel villaggio di Muong Ngoi la vita scorre tranquilla, i viaggiatori che arrivano qui cercano esattamente questo tipo di atmosfera, la speranza è che il posto non cambi. Non tanto in fretta, almeno.
Una costante, assurda e triste allo stesso tempo, è data dalla presenza di enormi bombe esplose lungo le strade dei villaggi. Pensare che questi posti, i più pacifici e simpatici che io abbia mai visto in vita mia, siano stati bombardati, e con bombe così grosse, mi sembra una cosa totalmente assurda e barbaramente insensata.
Gli abitanti di Muong Ngoi hanno riutilizzato le bombe nel modo più saggio e disincantato: come pareti di contenimento delle aiuole, come decorazione degli ingressi ai cortili delle case. Una mezza bomba era utilizzata come vaso: era piena di fiori.
Il posto in cui vado a mangiare (non mi sento di chiamarlo ristorante) è costituito da una panca lunga e da un tavolo messi al riparo di una tettoia in bambù. In fondo al tavolo, per terra, ci sono i fuochi, vasi di terracotta con le braci di legna sempre accese. A lato sta il tavolo per cucinare, sotto il tavolo, per terra, cipolle, patate, cavoli. Appesi alla parete in bambù, annerita dal fumo delle braci, stanno coltelli e pesci arrostiti o seccati al sole. La donnina che vi lavora di giorno e vi dorme di notte con la famiglia è in miniatura, in scala con il posto. Ogni tanto scaccia i polli o le papere che razzolano tra i piedi dei commensali. Quando un cane si infiltra fra le papere, affamato, la donnina lo scaccia e poi ride, vedendo che seguiamo la scena.
L'altro giorno, prima di partire ho chiesto alla donnina il riso col pollo. "Aspetta un attimo" mi ha detto, ed è sparita dietro alla parete di bambù. Avevo un po' fretta perché la mia barca sarebbe partita poco dopo. La donnina non torna, a me viene il sospetto di cosa stia facendo.Riappare dopo venti minuti circa, un po' trafelata. "Scusa", mi dice. "No pollo. Il pollo mi è scappato e non te lo posso cucinare. Non son più riuscita a riprenderlo. Vuoi il riso col cavolo? E' buono!" Trovo la cosa fantastica e cercando di restare serio le dico che va bene, mi piace il riso col cavolo. Spero che il cavolo non scappi. Mentre la donnina cucina penso al povero pollo, allo spavento che dev'essersi preso e rido da solo, seduto al nanotavolo. Mi sembra tutto assurdo e bellissimo insieme.
Ma il momento di partire si avvicina. Non ho il tempo di mangiarlo, il mio riso. Nessun problema, la donna capisce, rovescia il contenuto del mio piatto in un sacchetto di plastica qualsiasi, lo annoda e me lo da. Parto col mio sacchettino bello caldo in mano, lo mangerò lungo il tragitto in barca, con le mie bacchette personali.

DAG

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