domenica 13 aprile 2008

Lao

Dieci di aprile, auguri mamma, siamo già alla quarta cittadina del Laos, Pakxé. Le città laotiane sono difficili da capire, per me. Non hanno un centro. Hanno, finora, come elemento comune, la vicinanza con il fiume Mekong, ma questo non vuol dire che sulle sponde del fiume ci sia più vita che da altre parti. Avevo percepito Vientiane come una città di confine, ma l'impressione si è ripetuta poi per tutte le altre città. Thakhet, Savannakhet, ora Pakxé, hanno tutte un qualcosa di provvisorio e di sfuggevole, come se la meta non fosse lì, ma da cercare da qualche altra parte. A Vientiane abbiamo visitato l'arco di trionfo eretto dai francesi al loro ingresso nel paese, a Thakhet niente, siamo partiti il giorno dopo essere arrivati, a Savannakhet il museo dei dinosauri (e quando si va allo zoo o al museo dei dinosauri vuol dire che si sta raschiando il fondo del barile), Pakxé sembra abbastanza vivace, almeno ci sono tre ristoranti tra cui scegliere dove andare a mangiare. A Thakhet neppure quelli, alle otto tutti a nanna, le strade, prive di illuminazione pubblica, diventavano territorio di scorribande degli animali più inconsueti.
Non che mi aspettassi la spumeggiante Copacabana, sia chiaro, ma (tanto per fare un esempio) stasera abbiamo finito di cenare, abbiamo guardato l'orologio ed erano le sette e dieci. Per ingannare il tempo mi sono fatto interrogare in giapponese, Jun mi diceva le frasi in inglese e io dovevo prima capire cosa volesse dirmi e poi ricordarmi come si dice in giapponese. La prima parte era la più difficile se considerate che per il mio amico, tanto per farvi un esempio, "surìppi" per Jun significa "sleep", dormire e "bèsde" "birthday", compleanno.
Rimandato lui in inglese, bocciato io in giapponese.
Mentre vi scrivo Jun è andato a farsi fare un massaggio ai piedi, perché ha letto sulla guida che c'era un centro massaggi vicino alla guesthouse in cui dormiamo. Io ne avevo visto uno, e glielo avevo indicato perché è da tre giorni che dice che vuole un massaggio ai piedi, ma lui ha dovuto cercare quello consigliato dalla sua guida giapponese. Ovviamente era lo stesso. Approfitto della sua assenza e quindi dalla temporanea pausa dai "japanese jokes" per godermi la cosa più lussuosa da quando siamo arrivat in Lao: una terrazza enorme, su cui affacciano le nostre due camere. La terrazza è all'ultimo piano di un edificio interamente gestito da cinesi. Il proprietario ci ha visto uscire dalla guesthouse accanto alla sua scandalizzati per l'esorbitante cifra richiesta: 12 dollari. Ci ha subito sciacallato al collega vicino facendoci segno di dormire con le mani e indicandoci la porta a vetri dietro di sé. Quando abbiamo visto le camere ho contrattato per avere uno sconto. Siamo arrivati a cinque dollari a notte. Abbiamo fatto il gesto di dare i passaporti, ma il proprietario ha detto di no, che non gli interessava. Ha voluto i soldi subito, quelli sì. Non siamo registrati, in questo hotel. Sembra che la presenza cinese stia diventando sempre più forte, man mano che ci si allontana dal confine con la Thailandia. Interi edifici sono arredati con lanterne rosse, piastrelle lucide e vetri blu scuro. Quello è il segnale che i proprietari sono cinesi. Da una parte della strada il ristorante con relativa guesthouse, dall'altra il supernegozio, che vende di tutto, dai cioccolatini ai pneumatici.
I Laotiani, del resto, sembrano accettare senza alcun problema la presenza di altri popoli nel loro territorio: anche noi, i "Falàng" (termine abbastanza dispregiativo che inizialmente stava ad indicare i francesi ma poi si è esteso a tutti gli stranieri) veniamo in contatto con la gente del posto con una facilità nuova, rispetto, per esempio, alla Thailandia.
Lo abbiamo potuto constatare soprattutto nel corso dell'ultimo trasferimento, quello che ci ha portato da Savannakhet a Pakxé.
"Il bus parte alle dieci e mezzo, venite qui alle dieci e fate il biglietto domani", ci aveva detto la bigliettaia. Tre dollari e mezzo mi sembrava un costo francamente un po' basso per un viaggio di sei ore. Il sospetto che il bus non fosse proprio una limousine si stava facendo strada. All'arrivo nella polverosa stazione dei pullman di Savannakhet, il giorno dopo, il sospetto prende pesantemente corpo. Un torpedone cencioso e grondante morchia da ogni crepa rugginosa ci attende nel centro del piazzale, parecchi omini intorno si ingegnano per caricare sul tetto ed assicurare con cinghie e funi d'ogni tipo le merci da trasportare.
L'ultimo bagaglio che viene issato sul tetto è un motorino.
All'interno, dopo la conta dei biglietti, tutti i posti sono già occupati, ma continuano ad arrivare nuovi passeggeri. Ci stipiamo, mi rendo conto che sono in piedi e non ho trovato il mio posto. Sul biglietto ci sono i numeri, ma sui sedili no. Indico il numero del mio posto al ragazzo che controlla i biglietti ma lui fa un gesto vago, circolare, che potrebbe comprendere tutto l'interno del pullman. Volendo anche l'esterno. Un signore trasporta sgabelli. Li distribuisce sorridendo a tutti, ci sediamo nel corridoio, sugli sgabelli, in fila indiana, strettissimi, quando mi accorgo che Jun ha trovato un posto a sedere. Comodo e tranquillo, di fianco ad una ragazza. Come diavolo abbia fatto non lo so, ma mi fa venire il nervoso, perché mi guarda dall'alto in basso e ride, mostrandosi soddisfatto e un po' annoiato.
Vedo una signora anziana salire sul bus, una bimba al collo. La bimba avrà otto mesi, forse un anno. Indico con sguardo pietoso la donna a Jun, e poi lo guardo con disprezzo. Jun cade vittima del proprio buon cuore. Cede il posto all'anziana signora, lui farà il viaggio in piedi. Lo guardo e ridacchio. Tutto sommato uno sgabello non è poi così scomodo.

DAG

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie per gli auguri. Mamma