giovedì 15 maggio 2008

Al lavoro!

A Saigon, come a Bangkok, penso che potrei tranquillamente vivere.
Sono città grosse, incasinate, ma sono tutto sommato semplici. Innanzitutto fa caldo, e quando fa caldo a me sembra tutto più facile. Non ci si deve preoccupare di come vestirsi per uscire, soprattutto non è traumatico uscire. Poi sono città abbastanza sicure, tutto sommato. Sì, tempo fa c'era stato il problema dei finti tassisti a Bangkok, che rapivano i turisti per derubarli e poi li facevano sparire, e a Saigon c'è la mafia di Saigon, che però si fa gli affari suoi.
Il mio programma è quello di stare a Saigon per una ventina di giorni, con lo scopo di lavorare: se non direttamente, di creare contatti per lavorare con le case editrici di Saigon dall'Italia. Mi sono attrezzato quindi in questo modo: ho affittato una camera in un albergo della zona turistica (Pham Ngu Lao, sì, sono tornato afFangulào) e sono riuscito ad abbassare il prezzo da sei a quattro dollari al giorno. La stanza è al sesto piano e non c'è ascensore, ma ho un letto, un tavolino e il bagno in camera. Niente condizionatore, non mi serve. Il piano alto, come prevedevo, mi ha dato l'accesso a numerose reti internet a cui accedere via etere, quindi sono sempre online, anche se la connessione è lenta. Se a questo aggiungete che ho una grande parete vetrata che dà sulle casette del quartiere vecchio, mi sento praticamente a Manhattan!
Mi sono preparato per ogni eventualità: ho comprato un casco, obbligatorio in Vietnam per andare in motorino, mi sono fatto i biglietti da visita semplici semplici (Mr. DAG, photographer) e ho preso anche un telefonino con scheda vietnamita. Per comprare il telefonino ho impiegato una mattinata, perché qui in Asia, non solo in Vietnam, le regole della concorrenza sono diverse che da noi: esistono vie interamente tematiche, ovvero in cui si può trovare una sola categoria merceologica. C'è la via delle scarpe, la via dei motorini, la via dei meccanici, la via dei quadri (tutti uguali, fatti in serie) e la via dei telefonini. C'è, anche, purtroppo, la via dei ristoranti in cui si mangia il cane, con tutti i cani appesi. No, non ci sono stato e non ci voglio neppure andare, mi hanno detto che è un mio limite culturale. Va bene, penso che con alcuni limiti si possa anche convivere.
Andiamo a comprare qualcosa, qualcosa che non sia cibo o una bottiglia d'acqua, qualcosa che impegni leggermente le nostre finanze.
La cosa divertente, nel momento in cui vogliamo fare acquisti, è che dobbiamo trovare il prezzo più basso e da lì partire per contrattare. Quindi prima si girano tutti i negozi (e di solito sono tanti e uno attaccato all'altro) e si tiene a mente il più conveniente, poi si va dal finalista per la battaglia. La differenza di prezzo da un negozio all'altro può essere anche di un terzo del totale, quindi è un aspetto da considerare. Subito il commerciante ci si avvicina, ha fiutato il cliente e ha già la bava alla bocca, anche perché il cliente è occidentale, quindi secondo lui è, per forza, pieno di soldi.
"Cosa vuoi comprare?" Chiede, di solito, in modo diretto. "Un telefonino" - "Ah, ne abbiamo molti!" - "Eh, vedo...quanto costa quello?" Il commerciante ci pensa un po' su, poi ci comunica il prezzo. E la regola è, di fronte al prezzo, fare la faccia stupita e scandalizzata, prendere e girare i tacchi - le ciabatte, pardòn - e fare per uscire dal negozio o abbandonare la bancarella. Il commerciante a questo punto ci ferma, brancandoci per un braccio e ci chiede: "Ok, quanto lo vuoi pagare?" E ci porge la calcolatrice.
Calcolatrice alla mano, scriviamo un numero, da che si capisce se la contrattazione sarà in dollari o in dòng, la moneta locale. Adesso è il suo turno, legge la cifra che abbiamo digitato, spalanca gli occhi e spegne ostentatamente la calcolatrice e, con gesto teatrale, la poggia sul bancone, facendo cenno di essere impegnato. E via così, a far finta di scandalizzarsi a vicenda finché di solito (ma io sono diventato particolarmente forte) ottengo la merce al prezzo voluto.
Il telefonino che ho comperato è un Cinokia.
Ovvero un finto Nokia, fatto in Cina, molto più economico dei Nokia base, ma con tutte le funzioni di un telefonino normale. Quando si accende il logo e la musichetta sono simili ai Nokia, ma non sono quelli. Geniali, questi Cinesi. In alcuni casi ho sentito commercianti che di fronte alla mia obiezione: "Ma non è un Nokia vero, è cinese!" hanno detto: "Certo, noi non teniamo i Nokia che costano tanto, ma solo questi, per farti spendere meno!" Come a dire che da loro il cliente è proprio coccolato, vàh! Il mio telefonino ha anche un anno di garanzia, solo che la garanzia è rappresentata da un adesivo di carta sul fianco del telefono. Se si rompe o si stacca, addio garanzia. E l'adesivo è davvero fragile...
Chissà come sono contenti alla Nokia, vero Giorgio?
Comunque mi fa piacere avere già una mini rubrica di numeri di telefono tutti vietnamiti, tutti assurdi. La rubrica è fatta così: Hthièn, Làn, Lo'an, Phàm, Phùk e T'aung (sì, ho ritrovato la mia amica, una sera. Stava giocando a bigliardo al solito locale. In pigiama... (era quella che mi sgridava perché non mi vestivo bene). Le telefonate sono di solito abbastanza lunghe, metà del tempo viene passato a ripetere le frasi perché farmi capire dall'interlocutore e l'altra metà a chiedere "EEEHHH??.." perché anche io ho difficoltà a capire la persona dall'altro capo, per via dell'idioma in cui ci esprimiamo entrambi, che non mi sento di chiamare inglese. Tarzan aveva, quando lo ritrovarono nella giungla, una proprietà di linguaggio più articolata.
La mia giornata è organizzata in questo modo: La mattina mi sveglio di solito verso le sei e mezza, per la luce che entra dalla vetrata ma anche perché la sera vado a letto presto, quindi ho dormito abbastanza, cincischio un po' in stanza, poi vado a mangiare. Mai colazione dolce, di solito riso o noodles, per strada se mi ispira, altrimenti ho due o tre posti favoriti ed economici, ma sempre per vietnamiti. La mia divisa della mattina è quella da ufficio, camicia bianca e pantaloni neri con la riga, comperati al mercato e fatti mettere a misura da una sarta locale: elegante molto più che in Italia. Questo per due motivi: primo così vestito il mio interlocutore, sia negoziante o altro, capisce che non sono un turista ma sono lì per lavoro, quindi parte con un atteggiamento diverso. Secondo divento invisibile ai richiami ed alle insistenze continue dei motociclisti che offrono passaggi in moto o dei xiclò che mi vogliono portare a fare i "massà", i massaggi.
La ciabatta però rimane una costante, anche vestito come un damerino. La mattina di solito sono in giro, vado a vedere i negozi di libri, a studiarmi le riviste, dallo stampatore oppure a comprare le cose che mi servono, che come abbiamo visto porta via tempo ed energie.
Ad un certo punto della mattinata mi prendo un caffè, ed il caffè vietnamita è un'altra cosa speciale: viene filtrato lentamente da una tazzina di alluminio coi forellini, è fortissimo e viene servito con una caraffa di acqua bollente per allungarlo. Davvero buono. -Sì, socia, te l'ho preso!- Poi vado nuovamente a mangiare, perché s'è fatta la una e il pomeriggio lo passo in stanza a lavorare le immagini fatte in questi mesi a computer, oppure a scrivere. Magari ci scappa un pisolo. Di sera, verso le sette, smetto di lavorare, intontito e accaldato, mi faccio una doccia (fredda, ma tanto qui è tutto caldo) mi vesto comodo e scendo per andare a mangiare. Di solito la sera preferisco una zuppa, per stare leggero, magari da Phò Bò, il cinese dalla figlia tonta. Dopo cena passeggio per le vie qui intorno, schivando i motorini e rimandando sorrisi alle "bamidulìn".
Le bamidulìn sono le ragazze che stanno fuori dai locali ad aspettare i clienti, e quando passa un maschio da solo lo chiamano sorridenti, chiedendogli di offrire loro un drink. "Buy-me-a-drink", bamidulìn nell'inglese locale. Ormai le mie serate non sono più solitarie, conosco un po' di gente con cui gioco a bigliardo oppure vado a farmi una birra coi vietnamiti da qualche parte. Tanto, con il mio casco nuovo di pacca, sono indipendente!

DAG

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